venerdì 27 novembre 2015

L'illegalità ricercata

E' curioso che ci scriva gente che fa parte di un gruppo che spesso ha difeso anche situazioni di illegalità per chiedere di farli emergere da una situazione illegale. 
Purtroppo pare che il risultato sia complicato da ottenere. 
Ogni volta che leggo i loro messaggi, però, non posso fare a meno di chiedermi: ma a voi, chi ha detto di andarvi a mettere in questa situazione? 
Esistono delle regole, esistono delle leggi, esistono tutti i canali per fare ogni cosa all'interno della legalità, quindi mi è complicato capire perché alcuni hanno deliberatamente scelto di mettersi fuori da questi canali (forse pensando inizialmente di avere un risparmio economico, che purtroppo poi si è verificato non esserci) per poi venire a chiedere aiuto. 
Non dubito che dietro a certi fenomeni ci siano anche delle situazioni di reale disagio, di urgenza contingente a cui far fronte, di povertà, di fiducia posta in soggetti che si pensavano amici e che invece poi si sono rivelati altro ma non può essere che questo sia per tutti. 
Non credo neanche che tutto vada scaricato su di loro, che probabilmente in maggioranza sono soggetti deboli: probabilmente sono in certe situazioni perché qualche altro soggetto ha ottenuto di farceli finire, facendo il furbo. 
Quello che trovo sconcertante in tutto questo è classica logica italiana in cui si gioca a fare i furbi e poi magari ci si resta fregati.
Perché alcuni devono cercare di fare i furbi a spese degli altri? E perché questi altri accettano di mettersi in situazioni di illegalità per poi non sapere come uscirne?
Non credo siano tutti soggetti sull'orlo della disperazione e, quindi, invito a riflettere prima di mettersi in certe situazioni e a scegliere alcuni canali: si può anche dire di no a certe condizioni, si possono non accettare, si può scegliere altro e altrove che sia nel rispetto delle leggi.
E soprattutto, dopo che ci si è infilati nei pasticci e si va a cercare aiuto per uscirne, magari si eviti di accompagnare la richiesta di aiuto da una raffica di insulti perché quello è il modo migliore perché la richiesta non venga neanche presa in considerazione.

sabato 14 novembre 2015

Parigi è un sogno

Parigi è un sogno.
Il sogno di chi ha studiato francese. Il sogno di tanti libri di letteratura che hanno segnato la storia non solo della Francia. Il sogno fin da bambina con il cavallo a dondolo bianco e la spada di plastica come la Stella della Senna.
Parigi era il sogno anche nella prima vacanza di un capodanno, nonostante il freddo gelido a cui non ero abituata e la febbre alta arrivata proprio il giorno della partenza.
Parigi è stata la vacanza colorata a Montmartre e frivola a Pigalle, le luci sugli alberi lungo gli infiniti Champs-Élysées, il mistero di Notre Dame, i corridoi labirintici della metropolitana, il fascino del Louvre che tante storie aveva ispirato, le ore di coda in un prato gelato per salire sulla Torre Eiffel, i tetti grigio-blu dei palazzi, i panini con il burro ovunque anche dove non serve.
Parigi è stata il sogno di un viaggio di lavoro ottenuto per un colpo di fortuna in un assolato settembre, in sostituzione in corsa di una collega ammalata.
Parigi è stata una cena sul Bateau Mouche, una notte in un grattacielo a La Défense, una corsa a l'Opéra per recuperare una borsa di Hermès verde, una conferenza internazionale con giornalisti di tutta Europa.
Poi di nuovo una vacanza, di nuovo ammalata e affaticata a dividermi tra il Beaubourg e il cimitero intricato degli artisti, tra la fabbrica della L'Oreal e le tracce di Napoleone. Parigi per me è ancora il sogno.
E' terribile vedere ciò che è accaduto questa sera. Hanno portato la guerra dentro le nostre città, andando a colpire persone normali che facevano cose normali e non posso accettare né capire una guerra che ha il solo unico scopo di uccidere e distruggere. Continuo a chiedermi "perché?" ma non c'è risposta sufficiente a tutto questo.
Parigi non merita questo orrore. Nessuno merita questo orrore.
Non c'è niente che possa giustificare simili atti.

mercoledì 4 novembre 2015

Sala, Expo, Milano, il PD, Pisapia e i suoi amici

Chiunque abbia potuto ascoltare Giuseppe Sala ospite in TV a “Di Martedì” (video) non può non aver notato quanto il Commissario Straordinario di Expo 2015 abbia ampiamente dimostrato di essere presente e chiaro su tutte le questioni che gli sono state poste.
In merito alle domande/provocazioni del giornalista Barbacetto che contestava le cifre numeriche del successo di Expo (soldi spesi, biglietti venduti, sconti, bilancio), Sala ha risposto per le rime in modo preciso perché dell’evento che ha curato sa tutto e non ha mancato di dare anche una lezione di stile affermando che “Ora si dovranno chiudere i bilanci e si vedranno le cifre ma dovrei comunicarle prima al CDA che ai giornali, quando avremo finito anche Barbacetto le potrà avere come tutti” e di far notare l’inutilità e la stucchevolezza delle argomentazioni del giornalista del Fatto Quotidiano in quanto "Expo è andato bene ma Barbacetto non l'accetta".
E qui sta anche una delle questioni che aleggiano intorno ad Expo, ad opera di grillini, disfattisti, personaggi della sinistra radicale, amici di Pisapia e no-Expo vari che cercano costantemente di sminuire il successo di Expo basandosi su dati numerici veri o inventati, come se il successo della manifestazione dipendesse solo da quello. Si tratta di soggetti rimasti contro Expo a prescindere e che si appellano a dati presunti senza capire che Expo sarebbe comunque un successo, anche se non ci fossero i numeri che, comunque, ci sono.

A dimostrare il successo di Expo è il grande afflusso dei visitatori accorsi negli ultimi mesi di manifestazione e non solo perché il prezzo dei biglietti è sceso - che, come ha fatto notare Sala, è stata una scelta che ha consentito anche a persone non economicamente facoltose di poter vedere l’Esposizione Universale - ma perché tutti volevano andarci per vederla, per partecipare a questo grande evento con dentro il mondo.
Expo, per i visitatori e i turisti è stato questo: un grande evento con dentro delle bellissime attrazioni realizzate con sistemi tecnologici avanzati per proporre contenuti interessanti in forme spettacolari; esserci voleva dire essere al centro di un evento mondiale con la possibilità di incontrare persone provenienti da ogni parte del mondo ma anche partecipare ad una festa collettiva per la riuscita dell’Italia e degli italiani ad aver realizzato tutto ciò, nonostante le moltissime difficoltà iniziali e nonostante i problemi ormai strutturali che si registrano nel nostro Paese nel fare qualunque cosa.
Expo, poi, per imprenditori, studenti, ricercatori, istituzioni è stato un luogo di incontro e confronto con i referenti degli altri Paesi, un’occasione importante per stringere relazioni e partnership, per creare business e approfondire scelte economiche, politiche di cooperazione e sviluppo e tecniche relative al tema oggetto della manifestazione. Per molti altri, Expo è stata anche una buona occasione di lavoro e di fare un’esperienza all’interno di un contesto internazionale.
Complessivamente, quindi, al di là dei singoli numeri, è evidente che Expo già di per sé è stato un successo.

In questo si inserisce anche un pezzo della discussione politica. Qualche giorno fa Mariastella Gelmini ha accusato il PD di volersi intestare Expo e il suo successo. In realtà, il dato di fatto è che il PD (o almeno la “maggioranza” del partito) alla manifestazione ci ha creduto e l’ha sostenuta mentre gli altri partiti si sono letteralmente dileguati. Non è pervenuta alcuna dichiarazione di sostegno ad Expo dal centrodestra durante i sei mesi dell’evento e lo stesso Maroni, che in conclusione della manifestazione era sul palco a gongolarsi per l’esito riuscito, in realtà durante tutto il percorso che ha portato alla realizzazione dell’Esposizione Universale e anche mentre questa era in corso ha sempre rilasciato dichiarazioni altalenanti e più spesso portatrici di richieste al Governo per sopperire ad alcuni suoi dubbi che non di sostegno a quanto si stava svolgendo. 
Così come sul tema di Expo c’è un problema politico a sinistra: la sinistra radicale è rimasta in prevalenza no-Expo: gli “amici” e i supporter di Pisapia a partire da Paolo Limonta sono rimasti di quell’idea a prescindere da tutto ciò che è avvenuto in questi mesi, come se non avessero visto le code dei visitatori, i loro sorrisi, la loro voglia di esserci e i cambiamenti positivi che sono derivati anche alla città dalla manifestazione e dall’afflusso di visitatori. È il “pezzo” dei no-Expo, no-canal (e su questo qualche ragione l’avevano), no-metro perché ci sono gli alberi, no-global, no-infrastrutture e no tutto. È un pezzo minoritario ma molto rumoroso e che, evidentemente, qualche copertura altolocata ce l’ha e lo si è visto nel giorno di “Nessuno tocchi Milano”. Quando il PD ha indetto la manifestazione per consentire ai milanesi di riappropriarsi della città devastata dai black blok presenti nel corteo no-Expo del 1 maggio, regalando poi di fatto tutta la scena a Pisapia, purtroppo, il palco improvvisato alla Darsena è stato letteralmente monopolizzato dai no-Expo (a partire da Limonta, Cirri e Bisio) che non hanno avuto neanche una parola di scusa per quanto avvenuto il giorno prima come se nessuno avesse idea che in quel corteo avrebbero potuto accadere dei disordini e che hanno serenamente continuato a ribadire il loro no-Expo anche in quel contesto, di fronte al quasi silente Pisapia.
Pisapia in questo qualche responsabilità ce l’ha e anche consistente.
È evidente che Pisapia si trova imbrigliato dai suoi sostenitori così connotati e per mantenere il suo personale sostegno gioca un ruolo silente e non esposto, incurante del danno che sta provocando al PD e a tutta la partita per le elezioni 2016.
I giornalisti ci provano a sondare il terreno, a vedere se Pisapia si sbilancia a favore di qualche candidatura alle primarie o se ha qualche linea da esprimere e il sindaco, come un mantra, si limita a ripetere soltanto “primarie”. Come se non capisse che queste rischiano di aggravare i problemi invece che risolverli.
Ma cosa potrebbe mai dire di altro Pisapia?
È evidente che un personaggio così fortemente ancorato al mondo no-Expo non può certo sbilanciarsi per un sostegno alla candidatura a sindaco dell’uomo simbolo di Expo: sarebbe come scaricare tutto il suo mondo di riferimento e delegittimarlo.
Così come gli fa comodo non assumere alcuna altra posizione perché il problema ce l’ha in casa lui e ce l’ha perché un pezzo dei suoi sostenitori (SEL) è già schierato con l’assessore Majorino, in corsa per le primarie, un pezzo (Rifondazione ma anche Civati) non vuol più saperne di allearsi con il PD, un pezzo (Arancioni o ex tali, civici) vorrebbero piazzare un loro candidato per piantare una bandierina e far vedere che contano qualcosa. Ecco quindi, che il sindaco in carica, in mezzo a questo marasma, non ha il coraggio di metterci la faccia per rompere questo teatrino stucchevole e dettare una linea perché farlo gli provocherebbe la perdita di consenso personale, così gioca a fare l’equilibrista scaricando al PD i problemi che sono prevalentemente in casa sua.
Così come responsabilità sua è stato lo scatenarsi di questa dinamiche perché, quando ha avuto la geniale idea di annunciare la sua non ricandidatura ad un anno di distanza dalle elezioni, intanto ha fatto passare il messaggio che la città fosse già senza guida e poi gli assessori hanno rotto le righe andando ognuno per conto suo.

A proposito delle primarie, però, tornando a Giuseppe Sala e alla sua partecipazione a “Di Martedì”, ha risposto in modo secco e preciso anche su questo: "Dipende quali. Partiamo dalle idee. E poi primarie cosa vuol dire? Con quali regole? Qual è la platea elettorale di riferimento i milanesi, la città metropolitana o altro?".
Tradotto, quello di Sala non è un no a sottoporsi alle primarie ma è una richiesta – giusta – a chi continua a nominarle di fare chiarezza sulle regole di partecipazione, anche al fine di valutare se, in quel conteso, una sua candidatura ha un senso.
E proprio sull’ipotesi di candidatura a Sindaco, Sala ha chiarito immediatamente che è stato il PD a cercarlo e che sulla base di questo ha avviato delle riflessioni: “Il Pd è il mio partito di riferimento. Personalmente ho sempre pensato che certi ruoli dovessero giocarseli innanzitutto i politici, se loro ritengono di avere un politico adatto al ruolo e alla situazione e che possa vincere, va bene e siamo contenti. Non cerco una poltrona”. Tradotto: Sala ha esplicitato che se la sua candidatura serve, lui sarebbe disponibile, ovviamente chiarendo le condizioni dette sopra in relazione alle primarie e anche al fatto che “io resto me stesso, non mi voglio snaturare”, come ha affermato subito dopo per chiarire meglio.
Insomma, niente di strano o di scandaloso – come invece vorrebbero far apparire le tifoserie degli altri candidati in campo – ma sono solo le normali verifiche che farebbe chiunque prima di accettare di mettersi in gioco in una sfida del genere.

A proposito delle tifoserie, già da tempo si sono scatenate contro Sala: dentro al PD le acrimonie maggiori arrivano da Majorino e i suoi supporters, ma anche gli altri non scherzano.

La consigliera comunale Elena Buscemi – che di recente si è messa a inviare newsletter agli iscritti PD milanesi (e non si è mai capito dove e da chi abbia avuto gli indirizzi, visto che la gestione attuale della Federazione nega di averglieli forniti e lei è di Sinistra Dem) – nell’ultima comunicazione ha addirittura costruito un sondaggio con domande in cui descriveva Sala come uomo insito alla destra e ne ricordava il suo passato di direttore generale del Comune di Milano sotto la giunta Moratti per poi chiedere al pubblico che l’ha ricevuta di esprimere un parere sull’eventuale candidatura. E cosa mai sarà potuto uscire da un sondaggio così costruito?

Più in generale, i supporters di Majorino non accettano la candidatura di Sala in quanto “uomo voluto da Renzi”, “catapultato da Roma”, “non espressione dei territori”. E qui ci sono un po’ di punti da precisare: innanzitutto questa idea che serpeggia di fondo sul nome di Renzi usato come se fosse un estraneo che non ha diritto di metter becco sulle questioni politiche del PD di cui è Segretario nazionale è oggettivamente fuori luogo. Renzi è il Segretario e come tale ha diritto/dovere di occuparsi del suo partito e, soprattutto, di dirigerlo, anche perché, come si è visto in seguito ai risultati delle elezioni regionali, quando poi le cose non vanno bene, le prime accuse vengono dirette a lui e non ai dirigenti locali. Non ci sarebbe, quindi, nulla di strano se Renzi volesse occuparsi anche di alcune situazioni locali, a maggior ragione se sono ritenute strategiche come lo sono le elezioni milanesi. Caso mai, il punto è quanto Renzi conosca i territori (quelli veri non quelli immaginari nelle menti dei militanti del PD) e quanto abbia dirigenti locali validi su cui appoggiarsi affinché gestiscano le cose in modo da ottenere risultati senza che debba occuparsi lui direttamente di questioni che, oggettivamente, faticherebbe a seguire.
Secondariamente, dire che “Sala è l’uomo voluto da Renzi” è un po’ impreciso: il punto non è che a Renzi piace Sala e si è fissato che vuole quel candidato per forza, o meglio, magari a Renzi piace anche Sala in quanto tale, ma pensa a lui e vorrebbe candidarlo in quanto pensa che il suo nome sia quello giusto su cui puntare per vincere le elezioni a Milano, forte del successo di Expo e dell’immagine innovativa e moderna che si porta dietro, in linea con le trasformazioni positive che la città ha avuto negli ultimi anni e che devono essere maggiormente valorizzate. Se all’inizio di Expo su tutto ciò potevano esserci dei dubbi, dopo il successo della manifestazione, con la gente che accorreva da ogni parte e si metteva pazientemente in coda pur di poter vedere un po’di quel mondo, con il manager fermato dalla folla in cerca di autografi e foto, con il suo nome ormai popolare sui media e tra la gente è difficile pensare che non sia così. Questo non significa che il resto non esiste: c’è una gran parte di Milano che non è Expo, che non lo ha visto e non si è neanche interessata a cosa fosse e che magari vive anche problemi che vanno affrontati ma non c’è dubbio che è meglio affrontare la situazione partendo dall’accentuazione di un punto di forza e di valore per poi costruire il resto che non partire da zero.

Non la pensa così qualcuno dell’entourage di Stefano Boeri che, invece, su facebook rilancia sui contenuti concreti: “Mi pare di capire che Sala sarà il candidato a Milano, in caso di conferma va detto che non avrà vita facile prendere voti in periferia non è come organizzare mega eventi. La città richiede attenzione e ampiezza...”. Commento corretto, peccato che si dimentichi un particolare: Stefano Boeri cadde per lo stesso errore. Quando si presentò alle primarie contro Pisapia, Boeri venne portato in giro dal PD un po’ ovunque ma il suo discorso era standard, sia che si trovasse di fronte ad una platea di salotti, che di uomini d’affari del centro, che dei poveri derelitti abitanti di case popolari che letteralmente crollavano e crollano tutt’ora a pezzi. Boeri ogni volta parlava di grattacieli, di Expo (la sua, diversa da quella poi realizzata da Sala), di progetti moderni e importanti e di un mondo bellissimo che da certe periferie allora era lontano anni luce. Fa piacere sapere che adesso Boeri sta girando quelle stesse periferie, accompagnato dai suoi supporters, chissà che magari si accorga della necessità di cambiare taglio di alcuni discorsi in alcuni luoghi.

I supporters di Fiano, invece, sono nel pallone, spaesati, non capiscono o non vogliono capire e non si danno pace perché hanno buttato il loro candidato in mezzo alla corrida e adesso che si è capito che l’uomo su cui puntare potrebbe essere un altro, che oltretutto a Renzi piace (non perché gli piaccia in sé ma perché è convinto che, anche rispetto ad altre ipotesi, possa essere davvero quello vincente per le elezioni), sono in crisi mistica e non sanno più a cosa arrampicarsi e invocano comunque “primarie” perché un po’ ci credono nel valore dello strumento (in quanto dovrebbe essere garanzia di “partito aperto”), un po’ perché qualcuno ambisce ad usarle per piazzare se stesso e un po’ perché ormai sono state talmente tanto annunciate che non si possono disattendere.
L’argomentazione principale dei “fianisti” è che “Sala è l’uomo dei poteri forti” (non vedendo che caso mai è il PD che, purtroppo, ha uomini deboli), mischiando ciò ad un improvviso orgoglio di partito che in quanto tale deve esprimere un candidato proprio.
La candidatura di Fiano, infatti, è maturata dopo il trionfo del PD alle elezioni europee con il 40% e, da qui, l’idea che si potesse puntare sulla propria forza interna, magari vivendo del riflesso del successo di Renzi, ovviamente candidando un renziano. Purtroppo, qualche tempo dopo i numeri delle elezioni regionali hanno mostrato che il quadro era già ampiamente cambiato ma, evidentemente, chi ha voluto lanciare Fiano nell’arena non se n’era accorto o non ha dato importanza alla cosa.
Emanuele Fiano, invece, un po’ deve aver capito che aria tirava attorno all’ipotesi della sua candidatura e ha sempre messo le “mani avanti”, dicendo in ogni occasione che lui sarebbe stato in campo ma che se si fossero profilate altre ipotesi su cui tutti avrebbero potuto convergere (compreso il ritorno di Pisapia), sarebbe stato disposto a farsi da parte. Nei giorni scorsi, quando questa ipotesi è diventata più concreta per l’avvento di Sala, però, Fiano deve averci ripensato e si è affrettato a dire: "Io sono sempre stato e sono un uomo di squadra. Se ci sarà una strategia comune io ci sarò ma non vedo ad oggi una strategia comune. Una strategia condivisa ci deve essere e deve essere spiegata". La domanda che sorge spontanea sarebbe: ma cosa devono spiegare, ancora? Non è già abbastanza chiaro chi è l’uomo che aggrega tutti e qual è la strategia vincente? In realtà, Fiano ha capito benissimo perché non è certo stupido e, traducendo la dichiarazione si capisce che sta solo alzando il prezzo del suo ritiro perché non è certo scemo da ritirarsi dalla corsa in cui ha messo la faccia (e in cui ha lavorato, costruendo un gruppo attorno a sé, aggregando soggetti di estrazione diversa, cercando di allargare consenso) senza avere nulla in cambio.
In realtà verrebbe da rispondergli chi mai gli ha chiesto di candidarsi quando l’ordine della Federazione Milanese era di stare tutti fermi in attesa di regole e programma ma quell’ordine è stato comunque disatteso da tutti.

Più simpatico su Sala, ultimamente, è stato Pierfrancesco Majorino che, da mesi, va avanti a ripetere tutti i giorni “primarie” senza mai aggiungere un contenuto che sia uno alla sua candidatura (ma in parte si trova imbrigliato perché è ancora assessore in carica e deve occuparsi di svolgere il suo ruolo più che della campagna elettorale). Majorino ha ironizzato su facebook “Nessuno salti la fila. Se va bene per il padiglione del Giappone, varrà pure per le Primarie del centrosinistra, no?”. Un modo spiritoso per chiedere, appunto, “primarie” e evitare che il candidato Sala si mangi tutti e le faccia saltare, non accorgendosi però che – anche solo con quanto affermato a “Di Martedì – Sala è già più avanti di tutti da un pezzo su ogni fronte e sono loro a doverlo rincorrere se non vogliono sfigurare e, magari, se oltre a “primarie” dicessero anche per quali progetti per la città e per i cittadini potrebbero anche risultare più interessanti e meno autoreferenziali per chi li legge.
Sì, perché Giuseppe Sala, in quei pochi minuti di trasmissione a “Di Martedì” ha parlato anche di Milano e delle sue trasformazioni, rese possibili dal tessuto sociale della città, delle intelligenze, le università, l'imprenditoria... Insomma, Sala è sembrato molto più "sul pezzo" di tanti altri ed è stato anche molto più incisivo pur essendo intervenuto su queste questioni da poco e meno di altri ma, decisamente, in modo azzeccato.

Le settimane che ci separano dall’appuntamento elettorale, comunque, sono ancora tante e ne vedremo delle belle.

martedì 20 ottobre 2015

Giornalisti che non fanno il loro mestiere

Non mi stupisco se persone comuni aprono il web o i giornali, leggono le prime cose che trovano, ci credono e le rilanciano.
Mi stupisco che lo facciano giornalisti, magari anche affermati, che dopo anni di lavoro e riconoscimenti, dimenticano le regole base del giornalismo (come ad esempio quella di avere delle fonti certe e di andarle poi a verificare) e scrivano dei pezzi contenenti tesi totalmente inventate e non si preoccupino di interpellare anche altre voci rispetto a quella della loro fonte per avere maggiori garanzie di veridicità su ciò che intendono pubblicare ma anche per tutelarsi da eventuali querele che possono arrivare quando si scrive il falso o si diffamano persone.
Questo modo di scrivere fa un danno all'informazione e ai cittadini che hanno il diritto di essere informati su quanto accade.
Non mi stupisco se ci sono politici o aspiranti tali che usano l'informazione e i mezzi di informazione per fare propaganda alle loro tesi e martellino su quegli argomenti ma mi stupisco che i giornalisti che vedono tali comunicazioni e devono scrivere un articolo attinente a quell'argomento non vadano poi a verificare se quella comunicazione è vera o falsa o se manca di altri dati, magari volutamente omessi da chi l'ha mandata.
Non mi stupisco troppo se incidenti di questo tipo capitano a giovani giornalisti, spesso neanche pagati, che lavorano in condizioni impossibili e magari hanno fretta di chiudere un pezzo con un certo numero di battute che è stato commissionato loro all'ultimo momento e cercano di arrabattarsi come possono ma mi incavolo quando lo fanno signori del giornalismo profumatamente pagati e coccolati da grandi gruppi editoriali che hanno, invece, tutte le possibilità di lavorare come si deve e mi incavolo ancora di più perché l'Ordine dei Giornalisti - che è nato per garantire ai lettori che coloro che scrivono sono persone con le competenze adatte a farlo (perché questo è ciò che ti spiegano) - poi non si preoccupi minimamente di dire qualcosa ai tanti "colleghi" che fanno tutto tranne che un'informazione corretta, verificata nelle fonti e nelle tesi.

giovedì 8 ottobre 2015

Il sindaco non pervenuto

Il caso Roma è da tempo sotto gli occhi di tutti.
Marino ha avuto, negli scorsi mesi, più occasioni per dimettersi e, soprattutto, per farlo a testa alta, facendo emergere in modo forte la differenza tra il sistema criminogeno che tiravano fuori le inchieste e i suoi tentativi di rompere quei meccanismi e di ripristinare la legalità e la trasparenza.
Invece, non lo ha fatto: Marino è stato lì perché, da persona onesta, riteneva di dover restare e mentre a lasciare avrebbero dovuto essere gli altri, quelli corrotti e compromessi.
E' stato lì anche perché un pezzo di chi ce lo ha messo (il PD) ha pensato che andare al voto equivalesse consegnare la città ad altre forze politiche e che comunque, prima o poi, si sarebbe trovato il modo di rimettere la situazione in ordine e che lasciare in ordine è sempre più conveniente che uscire di scena in mezzo agli scandali.
Il problema è che nulla si è risollevato. I pasticci a Roma hanno continuato a susseguirsi uno dopo l'altro su tutti i fronti e senza che fossero individuate responsabilità precise (il funerale del Casamonica che tutti sapevano ma non si sono parlati tra loro per impedirlo) o senza che venissero individuate delle soluzioni (i mezzi pubblici sempre fermi per scioperi o per guasti ma su Atac non si può nulla).
Nel frattempo è iniziata anche un'evidente campagna mediatica contro Marino, in parte fomentata dal Movimento Cinque Stelle con il pallino degli scontrini (la Panda in zona vietata, le vacanze lontane mentre Roma affonda, le risposte sgarbate date ai cittadini, il nuovo viaggio in America annunciato come su invito del Papa e poi smentito dal Papa stesso, le cene pagate dal Comune): un accerchiamento che aveva l'obiettivo neanche tanto velato di farlo fuori ma resta che il sindaco di Roma ci è caduto completamente dentro.
Marino solo ingenuo o distratto? Può essere ma sviste di questo genere spesso si pagano, anche perché si sta parlando del sindaco della Capitale d'Italia e, quindi, di un uomo e di una città che hanno visibilità nel Paese e nel mondo e la visibilità degli ultimi tempi non è stata certo positiva.
E' una colpa di Marino? Probabilmente no o non del tutto.
La colpa principale di Marino è quella di non aver fatto il sindaco. Da quando è emersa l'inchiesta "Mafia Capitale", tutto ha continuato a ruotare intorno ai problemi di legalità, nomine, potere, gestione e tutto il resto è sparito dall'agenda mediatica del sindaco. Magari poi nei fatti Giunta e Consiglio Comunale hanno anche lavorato per temi più concreti di interesse dei romani ma il sindaco lo si è visto solo concentrato su se stesso e il suo problema personale nel rapporto con i partiti che lo sostenevano e con gli avversari mentre la città aveva bisogno di uno che facesse il sindaco non lo sceriffo o l'equilibrista. I suoi assessori (compresi i nuovi persi tra visibilità e bestemmie) non hanno fatto altro che contribuire all'ampliamento di questa distanza dai cittadini e dalle loro domande di governo della città.
Anche la pantomima di oggi sulle dimissioni annunciate e poi smentite è un'altra ridicolaggine di cui la Capitale d'Italia non aveva bisogno.

giovedì 10 settembre 2015

Il ruolo del giornalista

Sull'opportunità o meno della presenza dei Casamonica in tv si può discutere.
Non so dire se le loro comparsate mediatiche siano state opportune. Credo, però, che il punto vero sia il riuscire a fare informazione mostrando un pezzo di realtà (che pure da tempo stava sotto gli occhi di tutti e nessuno sembrava essersi accorto prima del funerale show) senza offrire un palcoscenico ai delinquenti.
In questo credo che Bruno Vespa abbia fallito.
Il giornalismo nasce come "mediazione" tra realtà accaduta e pubblico e, nell'esercizio di quella mediazione, si svolge il racconto della realtà che consente al pubblico di formarsi un'opinione.
Probabilmente a casa saremmo stati benissimo anche senza guardare lo show trash della figlia del defunto Casamonica, senza vederla alzare i toni (sempre in dialetto) e le mani con fare minaccioso. Probabilmente saremmo stati benissimo senza sentire il nipote che, di fronte allo snocciolamento delle accuse pesanti rivolte al defunto zio, con fare sorridente replicava "eh vabbé ma è successo una volta sola!", allo stesso modo di come si cerca di giustificare i ragazzini che hanno combinato qualche guaio di poco conto.
Eppure, a volte, è importante mostrare anche le persone negative, far vedere cosa sono, come si comportano, come si esprimono. Perché vederli, ascoltarli aiuta a capire. Anche a capire quali sono le facce e le ragioni del male e dove il male si nasconde (magari proprio sotto ai nostri occhi senza che ce ne accorgiamo, fino a che non finisce alla ribalta della cronaca per un funerale show).
Però, qui entra in gioco la mediazione e il ruolo del giornalista.
Sta al giornalista condurre il gioco, cercare di far emergere ciò che deve emergere (e cioè la realtà) e non quello che altri avrebbero interesse a mostrare.
Nella puntata di "Porta a Porta", purtroppo, Vespa non è riuscito nel suo ruolo di giornalista: ha ceduto subito. Difficile dire se abbia dismesso il ruolo di giornalista per farsi parte di uno spettacolo diverso perché intimidito dai soggetti che aveva di fronte (la figlia di Casamonica si alterava con frequenza di fronte ad ogni cosa e l'avvocato, che pure era lì per accertarsi che il curriculum penale del suo assistito venisse esposto senza errori, non era una presenza tranquillizzante in quanto un uomo di legge fa presto a minacciare querele) o se invece il cedimento allo show fosse stato pienamente consapevole e voluto. Il punto è che, però, voluto o incidente professionale, la trasmissione si è trasformata in uno show e si è creato un palcoscenico per dare voce a soggetti che non sono esattamente un esempio positivo.
Sui giornali e nelle agenzie di stampa di oggi è stato scritto qualunque cosa sulla puntata di "Porta a Porta" di ieri. Personalmente, quello che ho visto è stata semplicemente un'intervista sfuggita di mano, mal gestita perché difficilmente gestibile che ha dato luogo ad uno spettacolo trash con protagonisti dei buzzurri (per i modi di fare), ridicoli (per come cercavano di giustificare l'ingiustificabile) che neanche sanno esprimersi in italiano.
Non hanno suscitato simpatia alcuna. Non sono gli eroi di qualche fiction trash che sta andando in scena a Roma in questi mesi.
Ho preso atto del fatto che alcuni malavitosi finiti sui giornali in queste settimane hanno quelle facce, quel modo di esprimersi, quelle brutte parole grette in italiano stentato. Così come ho visto che un professionista, quale dovrebbe essere Vespa, dopo anni di televisione e di interviste più o meno preparate (anche quando inutili) non è stato in grado di fare il suo mestiere (cioè il giornalista e non lo show man o la spalla che regge il microfono) e da qui l'intervista si è trasformata in uno spettacolo che non è certamente ciò che un servizio pubblico deve fare.
Così come è stata terribilmente sbagliata la nota che si sono affrettati a diffondere questa mattina da "Porta a Porta" in cui si giustificava la presenza dei Casamonica con i dati degli ascolti elevatissimi. Non è pensabile che tutto sia piegato agli indici di ascolto quando si sta lavorando con un mezzo di comunicazione-informazione-formazione come la tv. Chi lavora in televisione e chi fa il giornalista deve avere una maggiore consapevolezza del proprio ruolo e delle potenzialità dello strumento e interrogarsi prima di prendere decisioni sul cosa mandare in onda e sul come mandarlo.
Vespa, con la puntata di ieri sera, gestita (o non-gestita) in quel modo, ha fatto un cattivo lavoro.

mercoledì 29 luglio 2015

Azzollini e i dirigenti paraculi del PD

Sulla vicenda del voto in Senato sul caso di Azzollini, a me, più che l'esito dl voto fa incazzare il gruppo dirigente del PD.
Premesso che conosco poco la vicenda di Azzollini nel merito (a prescindere dalla frase che avrebbe detto alle suore, perché il problema non è la frase ma il resto delle accuse).
Premesso che sono contraria a questa modalità di procedere perché auspico che i parlamentari vengano equiparati a tutti gli altri cittadini sottoposti a indagine e non debbano discutere tra loro se procedere o meno ad una richiesta della magistratura (inoltre trovo che discussioni del genere siano controproducenti anche per gli accusati perché, colpevoli o innocenti che siano, si prolunga la loro gogna mediatica).
Premesso anche che leggere derive forcaiole è sempre sgradevole perché nella maggior parte dei casi di questo tipo si tratta di mandare in galera delle persone (in questo caso no, si trattava solo di mandarlo agli arresti domiciliari) e motivarle come "scelte politiche" (io direi più propriamente "opportunismo elettorale" o "marketing") fa un po' schifo, a prescindere dai capi di accusa.
Vorrei, però, sottolineare alcune questioni di metodo, perché le polemiche di oggi stanno su quello.
I problemi sulla linea del PD sul caso Azzollini si sono palesati ieri sera quando è stato diffuso il comunicato di Luigi Zanda, capogruppo del PD al Senato, in cui invitava a leggere le carte e votare secondo coscienza.
Già qui si doveva capire come sarebbe finita, ne era un chiarissimo preludio.
Difficile dire con certezza se il problema era che realmente c'erano dei dubbi sulla vicenda di Azzollini o se era un problema di numeri per la maggioranza del Governo. Sta di fatto che il problema si è palesato con quell'invito al voto di coscienza e, siccome quel comunicato lo avranno visto anche gli altri dirigenti nazionali del PD (e magari qualcuno era anche stato chiamato al telefono per discutere che linea tenere), forse se c'era qualche dubbio su quella linea nelle ore intercorse tra la diffusione del comunicato stampa e il voto di stamattina qualche telefonata in più per correggere il tiro si poteva fare. Se non si è fatto nulla, o erano tutti in altre faccende affaccendati e nessuno si è accorto di niente oppure, cosa più probabile, a tutti stava bene così, ben consapevoli anche del possibile esito (elettoralmente non favorevole).
A questo punto, però, non capisco perché a linea dubbia tracciata e decisione presa con più o meno tutti concordi (o sicuramente tutti silenti), ora che è scoppiato il casino, alcuni simpatici dirigenti si arrabattano in salti mortali con dichiarazioni paraculissime di presa di distanza da ciò che è avvenuto.
A mio avviso, quando si è scelto di avere una linea, poi la si difende e si va a spiegare perché la si è scelta e non si scarica in modo becero tutto quanto sugli sfigati di turno che ci si sono trovati in mezzo.
Questo non è un comportamento da gruppo dirigente serio. Questo non è il modo di stare in un partito. Questo è lo stesso identico modo che nel 2013 portò a impallinare possibili Presidenti della Repubblica perché lo chiedevano i followers su twitter!
Usare il cervello invece del web, no? 
Pensarci prima alle conseguenze delle azioni che si sceglie di fare invece di buttare tutto in vacca dopo, no? 
Questa cosa la trovo intollerabile, molto più dell'esito del voto di oggi su cui i giornali ricamano molto ma di cui oggettivamente da casa sappiamo poco (a parte la frase brutta detta alle suore) e, in fondo, neanche tocca a noi giudicare (e non toccherebbe neanche ai politici).

giovedì 16 luglio 2015

Il giornalismo e il marketing

Mi pare che urga una riflessione seria sul giornalismo e su cosa vuol dire fare informazione.
Oggi, troppo spesso, non si fa informazione ma propaganda (perché anche seguire il senso comune quando non è veritiero o pompare un argomento inutile o sbagliato è fare propaganda e non informare).
Non si segue la deontologia e neanche il buon senso (o il buon gusto) ma solo il marketing e, di conseguenza, il metro di giudizio diventa il quantitativo delle vendite o dei likes ottenuti e non importa più con quale contenuto e se quel contenuto è vero o è giusto.
Raccontare i fatti diventa secondario, prevale il fare lo scoop anche quando questo non c'è.
Il web e i social media, con la possibilità di condividere, amplificano il problema e, spesso, più che l'informazione, aiutano la disinformazione, la propaganda e molte volte anche la diffamazione.
Uno dei problemi è che chi scrive - giornalista o meno - non segue più alcuna regola ma solo il sensazionalismo o i toni aggressivi che una volta venivano confinati nei peggiori bar e oggi sono sulla bocca di tutti.
L'Ordine dei Giornalisti, per legge, è obbligato a fare corsi di formazione per i suoi aderenti, peccato che il più delle volte si tratti di conferenze generiche sui temi più vari e che di formativo non hanno nulla o quasi. Se si usassero quei momenti (che sono obbligatori per tutti) per insegnare almeno le regole base a chi evidentemente o le ha dimenticate o non le conosce proprio, forse sarebbe già un passo avanti.
Da appassionata di giornalismo, vedere un simile scenario è desolante e, a volte, anche irritante. 
Se si va avanti così, il giornalismo muore e muore anche l'informazione. Soprattutto quella sul web che non è più il luogo della libertà e della democrazia ma il luogo della cialtronaggine diffusa, dello sfogo e dell'insulto collettivo che si fa forte della distanza del virtuale per dire qualunque cosa, anche la più becera, confidando nell'impunità o addirittura nel fatto che più lo si fa più si diventata "famosi".
Negli anni passati a scrivere e a bussare a ogni giornale per arrivare a ottenere il tesserino non era questo il giornalismo che sognavo, che seguivo e a cui volevo arrivare.
Chi fa informazione oggi ha il dovere di seguire i fatti e la verità, anche stando dentro a i meccanismi del marketing, altrimenti apra un'edicola o si metta a vendere quel che gli pare ma non scriva perché non è il suo mestiere e fa del male al giornalismo, all'informazione e alla libertà di informazione.

domenica 21 giugno 2015

Expo e dopo-Expo: non solo sito espositivo ma contenuti e politiche

I detrattori di Expo avrebbero dovuto partecipare all’incontro che si è svolto alla Festa PD di Cinisello Balsamo con il Ministro Maurizio Martina, Stefano Boeri, il Segretario del PD lombardo Alessandro Alfieri e tanti altri esponenti della politica locale e nazionale per comprendere almeno un po’ di cosa sia effettivamente la manifestazione che sta ospitando Milano in questi mesi.
Il vero oggetto del dibattito era il dopo-Expo, tuttavia, come ha ben fatto comprendere proprio il Ministro Martina, non è pensabile discutere in modo serio di questo senza comprendere cosa sia l’evento in corso e di quali contenuti sia portatore.
«In Expo i contenuti ci sono, basta vederli», ha esordito il Ministro Martina, spiegando come ogni giorno ci siano delegazioni che partono dal sito di Expo per andare a visitare i vari distretti produttivi dei nostri territori e vedere come vengono realizzate le varie produzioni alimentari e come vengono effettuati i controlli per un cibo sano e sicuro nel nostro Paese.
«Serve andare oltre il “mi piace/non mi piace” a livello architettonico o logistico» ha insistito Martina, segnalando che «C’è già un’eredità positiva di flusso che Expo sta generando in Italia e che sta già dando i suoi frutti», in quanto tutti i giorni ci sono incontri per imprese italiane ed estere e confronti su tecnologie produttive e temi legati all’alimentazione e alla ricerca.
Citando la cronaca della giornata, il Ministro ha poi raccontato che il Presidente francese Hollande in visita ad Expo ha chiesto di legare la manifestazione a Cop21, l’appuntamento in cui si parlerà dei cambiamenti climatici che si svolgerà a Parigi a fine anno e, con il Ministro dell’Agricoltura francese Stéphane Le Foll hanno firmato una dichiarazione congiunta che chiede agli Stati che stanno lavorando al dossier di Cop21 di insistere su azioni e misure per la riduzione dei gas serra e delle buone pratiche di sostenibilità ambientale in agricoltura.
Venendo alle polemiche legate al futuro delle aree che oggi ospitano il sito espositivo di Expo, Martina ha segnalato che al momento il Governo non può esercitare alcuna leva, in quanto non è socio della società che le gestisce, pur avendo messo molti soldi per la realizzazione dell’evento e, comunque, farà sentire la sua voce. Martina ha anche polemizzato con il Presidente della Lombardia, senza mai citarlo per nome ma dicendo chiaramente che «Sbaglia chi pensa di risolvere la partita del post-Expo liquidando il Governo solo perché non è socio della società che gestisce il sito. Non si può discutere solo di come se la giocano quelli che hanno le quote delle società presenti. Il livello della discussione da fare è molto più alto e servirà un’interazione tra pubblico e privato del tutto nuova perché non è più pensabile di risolvere tutto seguendo le vie di qualche immobiliare come, in un primo momento, qualcuno ha anche pensato di fare».
A chi, come Daniela Gasparini (oggi parlamentare PD e precedentemente Sindaco di Cinisello Balsamo), ha chiesto che la gestione del dopo-Expo venga affidata alla nuova Città Metropolitana, il Ministro Martina ha confermato che «il post-Expo deve essere la prima vera partita da giocare della Città Metropolitana Milanese perché non è pensabile che la Città Metropolitana sia costituita solo attraverso un articolo di legge» ma occorre calarne le funzioni nel concreto e nel tessuto delle società e, in questo, Expo può essere un’ottima occasione.
Dal punto di vista pratico, Martina ha ricordato che andrà gestita anche tutta la fase cuscinetto che va dalla fine dell’evento Expo all’inizio dei nuovi progetti e, su questo, occorrerà fare un cronoprogramma definito in cui sarà stabilito quali attori dovranno essere presenti e per fare cosa.
Tuttavia, il Ministro Martina ha insistito molto sul contenuto di Expo: «La vera eredità di Expo è insita nel suo tema ed è legata alla sfida per l’alimentazione globale e, quindi, verosimilmente collegata al tema della ricerca. Anche per questo – ha affermato il Ministro – stiamo iniziando a lavorare per costruire un’operazione Milano-Dubai con cui si andrà a legare il post-Expo milanese al progetto per Dubai 2020 (dove si svolgerà la nuova Expo)».
Più legato alle polemiche politiche sul dopo-Expo, invece, è stato l’intervento di Stefano Boeri che ha segnalato che probabilmente sulla gestione del post-Expo si giocherà gran parte della campagna elettorale per la conquista del Comune di Milano.
A chiudere il dibattito è stato l’intervento del Segretario del PD della Lombardia Alessandro Alfieri, un po’ più concentrato sulle problematiche interne al partito e al rapporto non esattamente sereno tra maggioranza e minoranze.
Sul tema dell’incontro, Alfieri ha affermato che Expo è un’importante piattaforma diplomatica dove arrivano delegazioni da tutto il mondo e ha reso Milano una città sempre presente su tutti i media come capitale del dibattito sulle sfide dell’alimentazione e, in particolare, del come investire sulla sicurezza alimentare e come cercare di far fronte al problema della scarsità di cibo.
Il dopo-Expo, secondo Alfieri, sarà un banco di prova per la politica locale e per la Città Metropolitana.
«La vocazione di Milano è quella di essere una città globale, aperta e accogliente e di stare dentro alle dinamiche internazionali», ha detto Alfieri, segnalando però la necessità di fare attenzione a come il Partito Democratico si vuole collocare dentro a questi processi e con quale rapporto rispetto alla globalizzazione che ha cambiato il mondo.
«La Lega rifiuta la globalizzazione, alza i muri – ha sottolineato Alfieri – mentre noi del PD vogliamo stare dentro a questo processo e governare i fenomeni, anche perché mettere i muri vuol dire anche tenere fuori dei talenti».
Per Alfieri, tuttavia, è un errore grave negare le ansie e le preoccupazioni dei cittadini che la Lega cavalca, mentre occorre tradurle in un modello di società in cui vengono governate.
Sulle polemiche post-elettorali, Alfieri ha ricordato che il PD rimane comunque il principale partito del Paese e va molto meglio rispetto agli altri partiti della sinistra europea perché ha saputo abbattere alcuni tabù che questi non sono riusciti a fare.
«Hollande sta inseguendo la destra per cercare di recuperare un po’ di consenso elettorale! – ha segnalato il Segretario regionale del PD – E’ Hollande il principale motivo di freno alle richieste italiane in materia di politiche per l’immigrazione in Europa».
In chiusura del suo intervento, il Segretario Alfieri ha ricordato ai presenti che il Governo Renzi è impegnato in un grande sforzo per cambiare il Paese: «Cambiare è complicato perché è chiedere a tutti di fare uno sforzo per non difendere la propria rendita di posizione. Oggi sono necessarie maggiori risorse per i nostri territori perché vengono utilizzate dagli Enti Locali per rispondere ai bisogni dei cittadini in maggiore difficoltà e il Governo deve garantirle ma, allo stesso tempo, i territori devono aiutare e sostenere il Governo nel processo di cambiamento del Paese».

lunedì 15 giugno 2015

Guerini e Mirabelli a discutere di immigrazione, governo e PD sui territori

Domenica mattina è arrivato a Milano il Vicesegretario Nazionale del Partito Democratico Lorenzo Guerini a discutere – insieme al senatore Franco Mirabelli - dei temi più rilevanti dell’attualità e delle problematiche interne al PD, nell’ambito di un’iniziativa messa in campo da alcuni circoli.
Tanti i temi affrontati, dal problema dell’immigrazione, esploso in tutta evidenza in queste ultime settimane, alle riforme per cambiare il Paese e superare le difficoltà create dalla crisi economica, fino alle dinamiche strettamente di partito, comprese le diatribe interne, emerse con molta forza proprio durante la campagna elettorale e che certamente hanno contribuito a far uscire dalle urne dei risultati un po’ diversi da quelli auspicati.

Ad aprire l’incontro è stato il senatore Franco Mirabelli che, da milanese, non ha potuto evitare di soffermarsi sulla drammatica situazione dei migranti momentaneamente bloccati alla Stazione Centrale di Milano.
«La vicenda dell’ingente flusso dei migranti che sta interessando l’Italia in queste settimane è difficile da governare. - ha affermato il senatore democratico nel suo intervento - È evidente che un problema di questo tipo non lo può risolvere da sola l’Italia. Fa bene, quindi, il Presidente del Consiglio Renzi ad insistere affinché l’Europa si faccia carico fino in fondo del problema perché, ormai, è chiaro a tutti che i problemi che stiamo riscontrando nelle nostre città in queste settimane sono legati a scelte sbagliate dell’Unione Europea e, in particolare, di alcuni Paesi europei: se la Francia non avesse sospeso Schengen e non avesse chiuso la frontiera, non ci sarebbe stato quell’impatto che abbiamo visto sulla Stazione Centrale di Milano oltre che su quella di Ventimiglia. L’Europa, dunque, deve farsi carico insieme del problema, dimostrando di essere capace di affrontare la situazione dei profughi distribuendo gli sforzi e anche distribuendo le presenze».
«Per anni, - ha insistito Mirabelli - hanno spiegato che i migranti arrivavano in Italia perché guardavano la televisione e vedevano che qui si stava bene e c’era una “sinistra buonista” che avrebbe accolto tutti e, quindi, valeva la pena di salire sui barconi e partire. Oggi, dovremmo renderci conto che i migranti, se guardano la televisione, vedono che gran parte delle persone che prendono i barconi rischia la vita; molti muoiono in mare e, nonostante tutto ciò, la situazione da cui scappano è talmente grave a causa di guerra o povertà che preferiscono comunque rischiare la vita piuttosto che restare nei loro Paesi».
Mirabelli si è poi soffermato sulla polemica politica innescata prevalentemente dalla Lega Nord in queste settimane, segnalando che «La riproduzione continua dello scontro politico giocato sulla pelle degli immigrati è assurda. Qui non c’è una “sinistra buonista” che vuole accogliere tutti contrapposta ad una destra che, invece, difende la comunità nazionale. Qui c’è una destra che ha firmato tutte le leggi e tutti i trattati internazionali sull’immigrazione che hanno portato a questa situazione: dalla legge Bossi-Fini al Trattato di Dublino fino al sostegno all’intervento militare in Libia e alle regole – scritte da Maroni quando era Ministro dell’Interno – sulla gestione dei profughi sui territori».
«La situazione in cui si trovano i migranti è drammatica per loro ma anche per le nostre comunità che ne subiscono l’impatto e questa stessa destra che ha firmato tutti gli accordi che hanno contribuito a produrre questa situazione, e in particolare la Lega, non si assume quella responsabilità perché preferisce parlare di “invasione” e speculare su un dramma come quello che stiamo vedendo per portarsi a casa qualche voto in più», ha poi evidenziato il senatore Mirabelli, denunciando che «Nei giorni della campagna elettorale, girando per i territori, i cittadini raccontavano che ogni volta che passava Salvini a fare un comizio, immediatamente dopo nel Comune si diffondeva l’idea che, se in quel luogo avesse vinto il centrosinistra, si sarebbe aperto un campo profughi. Questo è un modo aberrante di affrontare i problemi».
Per l’esponente del PD è importante parlare con i cittadini che di fronte a quanto sta avvenendo, con l’arrivo massiccio dei migranti e le situazioni di degrado e disagio che si creano come quelle viste nella Stazione Centrale di Milano, si trovano dubbiosi e spaventati: «Occorre spiegare che c’è una grande tragedia internazionale di cui non si vede la fine. Nel Nord Africa, gli Stati nazionali che abbiamo conosciuto fino ad oggi stanno scomparendo tutti e, quindi, è anche difficile trovare degli interlocutori ma a maggior ragione occorre che il problema lo si affronti come Europa e in modo serio. Altrimenti, il rischio è che un problema epocale come quello che si sta verificando diventi uno strumento per farsi un po’ di propaganda elettorale e che porta a minare la convivenza civile e i principi fondanti della cultura europea, che è fatta anche di solidarietà. Il Governo sta cercando di lavorare per questo ma si tratta di problematiche difficili che si vanno ad intrecciare a dinamiche nazionali (in alcuni Paesi, ad esempio, ci sono scadenze elettorali vicine che spaventano e forze xenofobe che gettano benzina sul fuoco). Tuttavia, su queste vicende, l’Europa sta misurando davvero la propria capacità di esserci come soggetto politico e di mostrare la propria forza e la propria importanza, al di là dei singoli interessi nazionali».

Sulla questione dei migranti si è soffermato anche Lorenzo Guerini, il quale ha affermato che «L'idea di Europa non può partire da Ventotene per finire a Ventimiglia. Bisogna ragionare sul superamento del Trattato di Dublino. Il blocco dei migranti al confine italo-francese a Ventimiglia rappresenta la negazione dell'idea stessa di Europa». Sul ruolo di Roberto Maroni che, nei giorni scorsi, da Presidente della Regione Lombardia aveva minacciato di tagliare risorse ai Comuni che avessero dato disponibilità di accogliere i migranti sul loro territorio e aveva scritto ai Prefetti per invitarli a non inviare altri migranti sul suolo lombardo, anche Guerini – come il collega Mirabelli – ha segnato che «Il governatore lombardo Maroni non può farci lezione. Fu lui da Ministro dell'Interno a proporre e a far realizzare un piano di ripartizione dei migranti nelle Regioni italiane. Non vedo come, a ruoli invertiti, si rifiuti di applicare le direttive che sono state date da lui qualche anno fa. Così come il Trattato di Dublino II non l'abbiamo firmata noi ma un governo di centrodestra guidato dall’allora Premier Silvio Berlusconi e di cui la Lega era azionista di maggioranza».

Un altro tema che ha tenuto banco nel corso del dibattito è stato quello della legalità e le polemiche attorno alle inchieste romane di “Mafia Capitale”.

«Ciò che è emerso dalla vicenda di Mafia Capitale non è lo specchio del nostro partito, ma una patologia che si può debellare. – ha affermato Lorenzo Guerini - Quello che è avvenuto a Roma è un insulto ai militanti pieni di generosità dei tanti circoli del Partito Democratico. Chi ha sbagliato nel nostro partito non ha più cittadinanza. Inoltre, il governo Renzi sta facendo molto, a partire dall'impulso all'attività anti corruzione dato, per esempio, dalla nomina di Cantone. Ma c'è bisogno di avere le antenne alte su quello che avviene sul territorio e in caso intervenire e salutare chi sbaglia».

Franco Mirabelli ha ribadito che «Le inchieste di questi mesi hanno scoperchiato di nuovo uno scenario indecente fatto di corruzione che spesso ha finito per vanificare il grande lavoro fatto per ricostruire la credibilità della politica. Uno degli obiettivi che c’eravamo dati con le riforme, infatti, era quello di ricostruire un rapporto fecondo e positivo tra i cittadini e le istituzioni e tra i cittadini e la politica, con l’obiettivo di ridare credibilità alle istituzioni e ridare credibilità alla politica. Anche sul fronte della legalità, però, in realtà in questi mesi si è fatto molto in Parlamento. Abbiamo approvato una legge contro la corruzione con cui si reintroduce anche il falso in bilancio (e, quindi, rende più difficile la possibilità di costruirsi i tesoretti in nero per poi corrompere), con cui si aumentano le pene e si mette fine ad un fenomeno italiano per cui siamo il Paese con il più alto grado di corruzione d’Europa ma i corrotti non andavano mai in carcere. Abbiamo approvato una legge per punire i reati ambientali che, se ci fosse stata in precedenza, avrebbe prodotto la condanna dei dirigenti della Eternit o sulle vicende della Terra dei Fuochi. Inoltre, abbiamo fatto una legge contro l’autoriciclaggio. Gli effetti di tutte queste norme, probabilmente, si vedranno nei prossimi anni ma intanto dimostrano l’impegno di questo Governo, sostenuto dal Partito Democratico, anche su questo fronte».

L’altro fronte aperto nel corso del dibattito è stato poi quello riguardante le dinamiche interne al PD e come queste si ripercuotono sul Governo e hanno condizionato anche gli esiti elettorali.

«Le elezioni per il ballottaggio nei Comuni così come le Regionali non sono un test per il Governo e non hanno alcun significato a livello nazionale», si era affrettato a chiarire il Vicesegretario del PD durante la discussione ma anche a margine, parlando con i giornalisti, mentre le urne erano ancora aperte, sottolineando che «Il Partito Democratico non può tirarsi indietro da una riflessione sull'astensione. Il tema del rapporto tra cittadini e politica è fortissimo, ma più in generale bisogna rilanciare la fiducia dei cittadini nella politica».

E proprio sul tema del complicato rapporto tra i cittadini e la politica e la necessità di ridare credibilità alle istituzioni, si è soffermato Franco Mirabelli, il quale ha ricordato come questo fosse il principale obiettivo del Governo e che all’interno di questo ragionamento va collocata la necessità espressa da Renzi di fare subito la riforma costituzionale, la riforma del Senato, così come la legge per abolire il finanziamento pubblico ai partiti era anche un modo per dimostrare che la politica è la prima a rimettersi in discussione.

«Quest’anno abbiamo fatto tantissimo lavoro da questo punto di vista e abbiamo cominciato a cambiare davvero questo Paese su tante questioni importanti. Ma questo lavoro occorre farlo e riportarlo anche sui territori. C’è bisogno di un Governo forte, di un leader capace di comunicare ma abbiamo bisogno anche di un partito che, oltre a discutere, deve essere capace di sostenere e valorizzare l’azione di riforme messe in campo dal PD e dal Governo, grazie a cui il Paese sta cambiando e può continuare a cambiare», ha precisato Mirabelli.

E sulla rappresentanza territoriale ha particolarmente insistito anche Lorenzo Guerini, il quale ha affermato che la comunicazione politica non deve esaurirsi nella televisione, ma deve svilupparsi proprio sul territorio, dove, parallelamente, deve essere incoraggiata la militanza.
Entrambi gli esponenti PD hanno poi messo in luce l'importanza di un dialogo civile all'interno del partito, anche quando si hanno opinioni diverse perché – come ha precisato Guerini – «La politica è anche linguaggio e, dato che ogni sede ha i suoi stili, non è utile applicare il linguaggio da “Curva Sud” alla politica se si vuole instaurare un dialogo». Inoltre, ha sottolineato Mirabelli, «Dovremmo discutere un po’ meno su noi stessi e un po’ di più su quello che serve al Paese ma dobbiamo anche sapere e avere la capacità di sostenere un Governo che sta dando risultati importanti. Le elezioni appena svolte dimostrano che il centrodestra è tornato e, per il centrosinistra, questioni come il fisco o l’immigrazione sono ancora dei problemi: il PD e il centrosinistra vengono ancora vissuti come il “partito delle tasse” (nonostante la manovra per dare gli 80 euro) e, quindi, su questo fronte c’è molto da lavorare non solo sui giornali ma anche sul territorio; traducendo e riportando sul territorio il senso di un lavoro e di un’iniziativa politica che è quella di trasformare l’Italia per migliorare il Paese perché gli italiani se lo meritano».

Un dibattito ampio, dunque, quello svolto a Milano, voluto perché, come ha spiegato il senatore Franco Mirabelli «È importante, ogni tanto, uscire dalle logiche contingenti per fare il punto sulla situazione politica e provare a comprendere quale percorso si è intrapreso e quale strada resta da fare. Il rischio, altrimenti, è quello di restare schiacciati dalle emergenze e di perdere di vista il grande lavoro che sta facendo il Governo, prevalentemente grazie al sostegno del Partito Democratico».

Video del dibattito»

martedì 2 giugno 2015

Expo in progress

Altro giro ad Expo, altri padiglioni ma, soprattutto, altre trasformazioni. Sì, perché il sito espositivo è in progress e muta il suo aspetto. Chi va a visitarlo in questi giorni, troverà ad accoglierlo all’ingresso dalla parte della metropolitana un gruppo di una sorta di guerrieri del cibo, opere d’arte dello scenografo da Premio Oscar Dante Ferretti, così come suoi sono i banchi enormi disseminati lungo il decumano con l’esposizione di alimenti o di ciò che diventerà alimento.
Lo scenografo alle sue opere ci tiene molto e per quelle aveva già polemizzato a lungo con la dirigenza di Expo, tuttavia, a vedere il gran traffico di persone che circolano lungo il decumano e l’ingombro occupato da questi banchi espositivi (oltretutto dai colori scuri), forse si poteva anche evitare di farli.
Una bellissima sorpresa, invece, è l’orto all’ingresso del Padiglione della Francia che cresce e comincia a dare i suoi frutti: sono ben visibili infatti insalate, pomodori e carciofi.
Altra novità sono i visitatori che aumentano tutti i giorni della settimana, con particolari punte nei giorni di festa: si può essere fortunati da arrivare ai tornelli in orari poco frequentati, ma poi, arrivati all’interno, è facile accorgersi che la gente presente è tantissima in ogni luogo.
Se i visitatori aumentano, il sito di Expo aumenta anche le attrezzature per accoglierli: si sono moltiplicati gli spazi per sedersi, i furgoncini della Street food con bevande e cibi vengono fatti circolare ovunque, sono spuntati ombrelloni e tettoie accanto ai padiglioni più gettonati per evitare che chi attende in lunghe code si sciolga sotto al sole. Insomma Expo si adegua alle esigenze del momento e adatta di volta in volta la sua area.
Questo è indubbiamente un fattore positivo, segno che da parte della direzione vi è attenzione a quel che avviene giorno per giorno e si è pronti a far fronte tempestivamente a qualsiasi evenienza.
Meno positivo è il fatto che più il sito di Expo si riempie di installazioni e attrazioni lungo il decumano, più somiglia sempre di più ad una qualsiasi fiera e fa perdere l’attenzione per i temi che invece vengono proposti (anche in modo originale, innovativo e tecnologico) all’interno dei padiglioni.
Nei padiglioni, infatti, bisogna entrare: i veri contenuti di Expo stanno dentro, non fuori. E ci sono padiglioni meravigliosi, come testimoniano anche alcune lunghe code per accedervi.
Purtroppo non tutti hanno la pazienza o la resistenza fisica di stare in coda ore e allora in qualche spazio non proprio in tema può capitare di incapparci. Senza coda – ma verrebbe da dire anche senza Expo – sono i padiglioni dell’Ungheria (espongono produzioni in lana o in legno tipiche della zona e ogni tanto vi sono spettacoli musicali), della Romania (grazioso il bar a forma di capanna sul tetto ma il resto non è neanche di aiuto al turismo), la Moldavia (una piantina geografica per localizzare lo zona, uno schermo con immagini turistiche e un bar), la Slovacchia (al suo interno ma anche al suo esterno ospita una serie di opere d’arte e di composizioni artistiche, molto belle esteticamente ma poco in tema con la manifestazione).
Molto belli ma non del tutto inerenti al tema di Expo sono invece i padiglioni della Repubblica Ceca (la cui piscina esterna è gettonatissima da grandi e piccini, mentre all’interno si comincia con un percorso tra natura e silenzio per arrivare all’arte come forma di rappresentazione), della Lituania (tecnologie moderne, opere d’arte, schermi esplicativi delle produzioni del Paese) e della Bielorussia (tutto viene proiettato sulle pareti con qualche schermo esplicativo).

Altri luoghi in cui non si trovano e code per accedere sono i tanto decantati cluster: quando sono stati presentati è stato detto che lì si sarebbero concentrati i veri contenuti di Expo, al loro interno si sarebbero dovuti trovare gli spazi espositivi dei Paesi produttori di alcune specificità e si sarebbe discusso del tema della manifestazione. Tutto questo è da dimenticare. A parte la difficoltà di alcuni di questi ad avviarsi, oggi sostanzialmente si può dire che i cluster sono aperti e in parte funzionano. In parte perché bisogna chiarire cosa si intende per funzionare. Gli spazi espositivi e di vendita esterni ai cluster di cacao, caffè e anche riso (quest’ultimo in prevalenza alla sera) funzionano alla grande: la gente, arriva, si siede, compra, mangia, guarda ciò che c’è da vedere. Gli interni funzionano un po’ meno.
C’è sicuramente un problema “estetico”: non è carino dirlo ma esteticamente alcun cluster sono brutti, o comunque non hanno le forme spettacolari e appariscenti degli altri padiglioni per cui sono poco attrattivi: si tratta per lo più di grossi cubi rivestiti in legno o con pannelli colorati o a specchi nel caso del riso ma appunto cubi insignificanti.
Nel caso di cacao e caffè, l’idea di mettere fuori bar e stand di vendita, oltre che spazio per le presentazioni, si è rivelata geniale perché in molti vi sono attratti; altri come Frutta e Spezie che hanno il nulla fuori o più nascosti come il Bio-Mediterraneo richiamano proprio poco.
Dopo di che il problema vero resta l’interno: i Paesi non espongono le produzioni locali e neanche spiegano cosa fanno ma molto spesso utilizzano quei punti come rivendita di paccottaglie spacciate per artigianato locale (quasi tutti i Paesi africani) o, in alcuni casi, come luoghi di promozione turistica (le Maldive dentro al cluster del Mare che promuovono le loro spiagge, Malta dentro al cluster Bio-Mediterraneo che promuove il territorio da visitare).
Uno sforzo scenografico e esplicativo lo ha fatto il Brunei, nell’area Frutta e Spezie, in cui racconta il proprio modo di produrre. Così come interessante e gradevole è la tavola imbandita del Libano nell’area Bio-Mediterraneo. L’area Bio-Mediterraneo è quella che ha fatto arrabbiare la Regione Sicilia (che lì espone) per gli investimenti fatti. Si tratta di uno spazio molto grande ma un po’ nascosto, oltre il cardo (corridoio orizzontale) e sul lato destro del Lago con l’Albero della vita per chi arriva dall’ingresso della metropolitana. L’esterno è preceduto da una striscia di terra con alberi e arbusti chiamata “Parco della Biodiversità” (a ridosso del gettonatissimo padiglione della Coca Cola). L’area centrale è contornata da tavoloni con le scritte in greco e un palco spettacoli (lunedì 1 giugno vi si alternavano cantanti siciliani) e a chiuderlo sui lati vi sono i cubi dei padiglioni. La gente dentro c’era, girava da uno spazio all’altro, si fermava a sentire la musica… solo che sembrava di stare ad una qualsiasi fiera del turismo (con tanto di cantanti che cercavano di vendere al pubblico il loro cd) invece che ad Expo. Forse, però, le responsabilità non sono di Expo ma dei singoli Paesi che hanno affittato quello spazio e lo utilizzano decisamente molto male. All’interno del cluster vi sono anche la Grecia (dove il cartellone all’ingresso “Ellenic Tourism” chiarisce subito che si parla di turismo), l’Albania (lo spazio è quasi vuoto, vi sono dei quadri e un’opera d’arte in legno, non si sa se non è completato o se resterà così), la Serbia (vuoto, in cui sul muro che campeggia lo slogan “The future is sharing”), la Croazia, la Tunisia e l’Egitto (quest’ultimo diverte molto i bambini per gli ologrammi dei faraoni con cui si può giocare e farsi fotografare).

Qualche problema sul messaggio che si vuole mandare c’è anche in qualche stand (difficile chiamarli “padiglioni”) nell’area italiana: Palazzo Italia è sempre molto gettonato ma le file chilometriche non sono cosa sopportabile per tutti, mentre lungo il cardo le varie Regioni si mettono in mostra oppure offrono i loro prodotti. Qui ci sono lo spazio delle produzioni di Piacenza, Casa Citterio, Granarolo, gli spazi ristoro Calabria e Basilicata, la gelateria della Coldiretti, la Terrazza Martini e poi cominciano ad aprire anche punti promozionali delle varie Regioni: la Lombardia sta cercando di aggiustarsi l’immagine dopo la bruttissima figura dei primi giorni, la Liguria è bellissima con piantine appese alle pareti insieme alle ricette di alcuni suoi piatti tipici; di recente hanno aperto le Marche (con schermi che mostrano le bellezze artistiche e territoriali, esattamente come alla fiera del turismo). Molto gettonato e anche molto grande è il padiglione del Vino.

In sintesi, si può dedurre facilmente che dove non c’è coda, sarà più semplice entrare ma decisamente ne vale meno la pena rispetto ad altri spazi che invece meritano attenzione. Tornando ai padiglioni ufficiali, si scorre facilmente per visitare la Cina, dal bellissimo ingresso in mezzo ai fiori gialli. L’interno è tutto giocato sulla tecnologia con spazi interattivi e chiusura del percorso sul campo di “grano della speranza” fatto da alti pali luminosi che cambiano colore.

Molto frequentato anche ciò che c’è del Padiglione del Nepal: si tratta di una serie di pagode a cielo aperto senza niente altro. Sono molto belle esteticamente, ma quello che attrae i visitatori è indubbiamente la tragedia che ha colpito il Paese e per cui si possono lasciare offerte.

Padiglioni veri e propri sono anche quelli degli sponsor, tra questi sul decumano c’è ENEL, con tubi luminosi e cartelli esplicativi in cui si ribadisce in continuazione che l’illuminazione di Expo è fornita da loro.

Altro luogo frequentatissimo è la nuovissima area attrezzata con lettini e ombrelloni sulla fontana dietro al Padiglione della Lindt. E’ anche una zona abbastanza ombreggiata e nei momenti in cui il sole è molto alto, si rivela essere un ottimo luogo per riprendere fiato e, ora che comincia ad essere conosciuto, riesce a far concorrenza alla piscina assolata della Repubblica Ceca.

Per svagarsi, però, il luogo migliore resta la terrazza del Padiglione degli Stati Uniti: la musica è bella, l’aria non è troppo calda, si può ballare (sono le hostess stesse a farlo, anche quando hanno addosso la divisa) e nell’area sul retro del padiglione sono posizionati sei furgoncini per il Food Truck dove si può mangiare e bere a prezzi più o meno normali.

Arriviamo alla questione prezzi. Tutto ciò che riguarda Expo ha un costo e anche piuttosto elevato e, questo, oggettivamente, considerato il costo già alto del biglietto di ingresso è un po’ fastidioso.
Partiamo dai gadget: oggi i gadget di Expo, oltre che all’Expo Gate in Piazza Castello a Milano si possono trovare anche all’interno del sito espositivo ma i prezzi restano alti in ogni caso.
All’Expo Gate, gestito dal gruppo La Rinascente (o almeno così sono firmati gli scontrini) si possono trovare servizi di sei tazze con logo Expo da 36 a 77 euro a seconda della dimensione, sacchetti in stoffa da 16,00 euro, magnete rettangolare con logo Expo a 5,00 euro, spilletta tonda con logo Expo a 4,00 euro.
Sul sito espositivo, invece, hanno aperto gli store di OVS ed Excelsior. Questi due punti, all’inizio del Decumano per chi arriva dall’ingresso collegato alla metropolitana, non vendono solo gadget della manifestazione ma anche altro: in OVS si vendono tranquillamente i vestiti. La scelta è un po’ discutibile anche se con gli sbalzi caldo/freddo o con i bagni improvvisati in piscine e fontane, trovare una maglietta di cambio può anche essere utile in alcuni momenti.
OVS è lo store meno costoso: vende magliette con logo Expo, ma anche sacchetto/zaino con logo Expo in stoffa consistente a 12,00 euro, borsa con logo Expo a 14,00 euro. Excelsior vende gadget e prodotti firmati (portachiavi, cover per telefoni, puzzle per bambini ma anche oggettistica varia che c’entra poco con la manifestazione) ma ovviamente i prezzi salgono.
Novità degli ultimi giorni è il “Passaporto di Expo” che, annunciano dagli altoparlanti, si può far timbrare nei vari padiglioni che si visitano, così da portarsi a casa un ricordo del giro virtuale intorno al mondo. Il Passaporto non è altro che un libretto di carta piccolino ma se ci si illude che sia gratuito, si sbaglia: si paga anche quello e, comunque, non tutti i padiglioni sono già attrezzati con i timbri!
Un altro punto di acquisto è il Book shop Mondadori che, pur vendendo libri, si è adeguato e espone molte cose in tema della manifestazione: un quaderno a quadretti con logo Expo costa 5,00 euro, un quadernino piccolo tipo blocchetto da borsetta con logo Expo costa 3,50 euro e il sacchetto di carta per portarveli a casa costa 0,20 centesimi.
Ci sono poi i punti shop all’interno di ogni padiglione che vedono o prodotti tipici del Paese a cui si riferiscono o puro merchandising (quest’ultimo di solito prevale). In Francia si vendono posate, tazze, asciughini, grembiuli, portachiavi, torri Eiffel colorate e similari (una busta in stoffa con scritto Francia e bandierina francese costa 10,00 euro). In America vendono tazze (servizio da due a 20,00 euro), piatti (a 12,00 euro l’uno), foulard con logo del padiglione a 75,00 euro, borsa in stoffa nera grande a 130,00 euro. In Lituania si vendono gioiellini e campanelle in terracotta dipinte (le quali, in forma piccola, costano 8,00 euro l’una). In Belgio si vedono i cioccolatini Guillaumes a forma di frutti di mare (scatola piccola 3,00 euro, scatola media 8,00 euro).

Tralasciando i gadget, di cui si può anche fare a meno, veniamo al cibo che, invece, in alcuni momenti è indispensabile. Anche su questo fronte ci sono diversi problemi di costo: intanto bisogna sapere subito che mangiare in Expo è costoso, soprattutto se nel corso della giornata si vogliono prendere più cose; tuttavia si può cercare di fare attenzione a scegliere di mangiare dove costa un po’ meno.
I ristoranti e i self service hanno primi che vanno dai 7 ai 12 euro, in alcuni casi utilizzano delle formule “menù” con cui si può risparmiare un po’.
La pizza margherita rotonda a Rosso Pomodoro nello spazio Eataly costa 10,00 euro (e spesso c’è una coda lunghissima per ottenerla).
Sempre in Eataly, al ristorante della Sicilia, un piatto di mezze maniche con sugo di tonno, pomodoro e olive costa 7,50 euro. Una crepes alla Nutella nel Nutella Concept Bar (spazio Eataly, primo piano) costa 4,50 euro e l’acqua 1,50 euro.
Il costo dell’acqua è molto variabile a seconda di dove la si compra (va da 1 a 2 euro), è anche vero che disseminate lungo il sito espositivo ci sono le “case dell’acqua” dove si può bere o riempirsi le bottiglie ma è ovvio che per farlo bisogna avere con sé almeno un bicchierino o una bottiglia che da qualche parte andrà pur comprata.
Al bar del Belgio la bottiglietta d’acqua costa 2,00 euro ma lì si trova anche il mitico cono di buonissime patatine fritte (a 4,00 euro).
La bottiglietta d’acqua costa soltanto 1,00 euro allo stand rotondo della Beretta, dove vendono anche ottimi panini a poco prezzo (quello con salame 2,50 euro): mangiare lì conviene, il cibo è ottimo e si spende pochissimo. Si spende poco anche nel chiosco emiliano situato dietro al padiglione della Corea e prima di Cascina Triulza con cestino di tigelle e salumi, soltanto che è molto affollato e bisogna avere la fortuna di capitare in orari giusti.
Nello spazio Italia ci sono poi anche i salumi Ferrarini e Citterio che vengono serviti in vassoietti di cartone accompagnati da grissini: le chiamano degustazioni e si può scegliere la quantità che si desidera e in base a quello si paga. Il listino prezzi dello stand Citterio prevede 3 prodotti a 4,00 euro oppure 7 prodotti 7,00 euro; l’acqua da sola costa 1,00 euro ma 3 prodotti + acqua sul listino in distribuzione è calcolato 5,00 euro.
Anche la pizza si può comprare in altri punti: nello stand dentro lo spazio circolare di Copagri un trancio di pizza margherita costa 4,00 euro mentre da Via Vai trancio della stessa dimensione di pizza margherita costa 5,50 euro.
Da Mc Donald in qualche modo ce la si cava sempre: patatine medie 1,80 euro, acqua naturale 1,20 euro, toast 1,70 euro.
Anche sui gelati i prezzi sono molto variabili, se si è fortunati si parte da 2,50 euro e si può arrivare 4,00 euro a seconda dello stand. A venderli sono in tanti Grom, Lindt, Pernigotti, Caffarel, Nutella… A Casa Algida restano attuati i prezzi di listino: Magnum Classico 2.50 euro, Fiordifragola 1,50 euro ecc.

Se i primi giorni non era così semplice capire come e dove mangiare, oggi questo problema è stato risolto perché lungo il decumano ma anche un po’ disseminati per il sito espositivo hanno cominciato a girare i furgoni della Street food e qualcosa di buono lo si trova sempre. Più difficile è riuscire a fare attenzione al costo: il sito di Expo è grande e, quando si gira, si vedono molte cose ma poi difficilmente rimane in memoria dove le si sono viste o si ha voglia di tornare in quel punto quando magari si è già parecchi metri più avanti, per cui si finisce per fermarsi dove ci si trova nel momento in cui si ha fame con qualche rischio per il portafoglio. Complessivamente, comunque, i visitatori mangiano e bevono, bar e ristoranti sono sempre piuttosto affollati, tanto poi i conti si fanno a casa.


sabato 30 maggio 2015

La Bindi e gli impresentabili

Ci sono molti punti labili a proposito della scelta della preparazione e diffusione della lista degli “impresentabili” da parte di Rosy Bindi, in qualità di Presidente della Commissione Antimafia.
Premettendo che Rosy Bindi, in conferenza stampa, ha pesato accuratamente le parole, non ha mai fatto uso del termine “impresentabile” e ha fornito un’ampia serie di giustificazioni alla decisione di presentare quella lista, tralasciando per un attimo le contese di fazione all’interno del PD e prescindendo per un momento dalla vicenda inerente Vincenzo De Luca, ci sono una serie di motivazioni sull’inopportunità di tutto quel lavoro da parte della Commissione Antimafia che vanno poste alla base.

Innanzitutto va chiarito di cosa si sta parlando: si sta parlando di una commissione parlamentare bicamerale (cioè formata al suo interno da deputati e senatori, quindi, soggetti eletti in Parlamento, non magistrati o poliziotti) che si arroga il diritto di giudicare se altri soggetti che stanno candidandosi in politica sono adatti a farlo o meno.
Tradotto si sta parlando di politici che giudicano politici o aspiranti tali.

Va anche detto che Rosy Bindi ha fatto sapere subito che la scelta dei nomi è stata fatta sulla base di informazioni ricevute dalle Procure, quindi, dati in qualche modo certi.
E qui sorge già un primo dubbio: se proprio una lista di “impresentabili” ci doveva essere e se i dati vengono forniti dalle Procure, forse sarebbe stato più consono che a stilarla fossero state le Procure stesse.

Ma sui dati sorge anche il secondo problema: la lista presentata da Rosy Bindi, come lei stessa ha precisato, non considera tutti i reati in cui possono essere incappati i vari soggetti candidati ma soltanto alcuni considerati in qualche modo “reati spia” di possibile coinvolgimento di mafia stabiliti sulla base del Codice Etico, scritto e approvato all’unanimità dalla Commissione Antimafia prima delle elezioni europee e comunali del 2014, poi discusso anche in Parlamento ma non approvato e rinviato a data da destinarsi perché non vi era la convergenza di tutti i gruppi politici.

E qui di problemi ne sorgono più di uno.
Innanzitutto la legittimità del Codice Etico a cui Rosy Bindi fa riferimento come metro di giudizio delle candidature. Si parla di un Codice che non è una Legge dello Stato e, quindi, non è valida obbligatoriamente per tutti e su cui non vi era nemmeno la convergenza di tutti i partiti politici, tanto che il Parlamento l’aveva discusso ma non approvato. Quindi, come si fa a dire al candidato di un partito che non ha approvato quel Codice che lui è “impresentabile” perché non rispetta quel Codice, che comunque non è una legge ma è un’indicazione uscita da una Commissione senza obbligo di adottarla?

Un altro aspetto controverso è che quel Codice preparato dalla Commissione Antimafia, ovviamente, si interessa dei reati di mafia e quelli la Bindi si è preoccupata di andare a cercare incrociando i dati delle Procure. Tutti gli altri reati non vengono contemplati.
Dai giornali delle scorse settimane si poteva leggere un elenco ben più grave di soggetti “impresentabili” rispetto a quello presentato da Rosy Bindi, con tanto di curriculum e biografie ben sintetizzate, tra questi anche uno accusato di violenza su minori e poi mogli incensurate di mariti ampiamente compromessi che venivano messe in lista per consentire appigli ai traffici dei consorti e molti altri casi, senza dimenticare soggetti magari che non avevano condanne pendenti sul capo ma che avevano trascorsi politici molto discutibili (il candidato fascista inserito in una lista civica di centrosinistra in Campania ad esempio). La stessa Rosy Bindi aveva ben presente tutto questo, tanto che in conferenza stampa, alla domanda se tra gli “impresentabili” vi erano anche soggetti indagati per peculato (con particolare riferimento alle vicende delle “spese pazze” che ha visto il coinvolgimento di più Consiglio Regionali), ha chiarito che quel reato non era stato preso in considerazione perché le vicende presentavano molte variabili da una Regione all’altra e anche da un soggetto all’altro e sarebbe stato impossibile dare un giudizio omogeneo ma, se fosse stata presa in considerazione quell’accusa, il numero degli “impresentabili” sarebbe certamente aumentato.
È evidente, quindi, che di fronte a questo quadro, la lista presentata da Rosy Bindi risulta molto parziale (perché basata su dati parziali), incompleta e con la quale si rischia addirittura che bollando pubblicamente solo alcuni soggetti come “impresentabili” si finisca per legittimarne altri ben più discutibili.

E anche qui, la domanda che torna spontanea è: se proprio si doveva fare una lista di “impresentabili”, non sarebbe stato meglio se l’avesse fatta la Procura, elencando per bene tutti i capitoli penali e i trascorsi dei vari candidati così da presentare ai cittadini un quadro realistico, completo e non parziale? Insomma, nulla contro la trasparenza, ma se deve essere trasparenza che la sia per davvero e fino in fondo.

Ovviamente, il meglio sarebbe che non ci fosse bisogno di alcuna lista, in quanto i partiti dovrebbero selezionare con maggiore attenzione i soggetti da cui vogliono farsi rappresentare nelle istituzioni e, in alternativa, sarebbe molto più utile che, anziché stilare liste di proscrizione tardive e parziali, magari la Commissione Antimafia si mettesse a lavorare per approvare una legge che non consenta a soggetti condannati o indagati per alcuni reati (che magari non siano solo quelli considerati “spia” di mafia) di candidarsi alle elezioni. Fin tanto che non ci sono leggi che vietino la possibilità di candidarsi a soggetti dal dubbio curriculum penale, è abbastanza inutile stilare liste di proscrizione (per di più scritte da altri politici, magari alcuni dei quali a loro volta indagati per qualcosa), al massimo si può chiedere alle Procure di segnalare pubblicamente il profilo penale di ciascun candidato, in modo che i cittadini possano prenderne atto e decidere da soli se quei soggetti vale la pena di votarli o meno.

E sulla questione delle leggi, in qualche modo torniamo al punto di partenza e cioè ai compiti della Commissione Parlamentare Antimafia, che sono definiti dal disegno di legge con cui ad ogni legislatura viene istituita, citato anche dalla stessa Bindi durante la conferenza stampa.

Sul lavoro della Commissione Antimafia, però, occorre subito far notare alcuni aspetti: in questa legislatura, contrariamente al passato, la Commissione ha assunto un taglio più concreto e meno di pura analisi storica. La Commissione Antimafia, cioè, si è occupata meno delle grandi stragi che hanno avvelenato l’Italia e che in parte sono rimaste avvolte nei misteri e con cui gli esponenti che se ne sono occupati andavano in giro per conferenze e convegni costruendosi un’aurea quasi magica alludendo a mezze verità che avevano visto ma che non potevano raccontare fino in fondo; mentre gran parte del lavoro di questa legislatura si è concentrato sulle attività e la presenza della criminalità organizzata attuale, sugli scenari emersi dalle inchieste in corso e sulle richieste provenienti da chi opera nel contrasto alle mafie per cercare di costruire leggi più adeguate ed efficaci e, su questa strada, molte cose positive sono anche state prodotte.
Insomma, la Commissione Parlamentare Antimafia stava lavorando e lo stava facendo bene prima di andarsi a impelagare in questa vicenda assurda delle liste degli “impresentabili” con cui, invece, si è ampiamente squalificata nel metodo, nel merito e nella tempistica.

E qui, emerge il perché della responsabilità attribuita a Rosy Bindi. La Bindi è la Presidente della Commissione, cioè colei che organizza i lavori, che ne stabilisce la tempistica e dà gli indirizzi. È, quindi, ovvio che la responsabile principale di ciò che avviene e di ciò che è prodotto in Antimafia va alla Bindi, nel bene come nel male e anche prescindendo dalla vicenda della lista degli “impresentabili” e di chi l’avrebbe potuta vedere o meno. Ovviamente, accanto a lei vi è anche un “Ufficio di Presidenza” che era stato nominato poco dopo la sua elezione a Presidente e in assenza di esponenti di Forza Italia che, non gradendo il suo ruolo, avevano scelto di non partecipare ai lavori della Commissione Antimafia. Quindi, oltre alla Presidente Bindi, a governare in qualche modo i lavori della Commissione Antimafia, vi sono anche i Vicepresidenti Claudio Fava (esponente di Sinistra Ecologia e Libertà) e Luigi Gaetti (Movimento Cinque Stelle) a cui seguono i Segretari Angelo Attaguile (Lega Nord) e Marco Di Lello (PSI). Non ci vuole molto a capire che ciò che manca all’interno di quell’Ufficio di Presidenza è l’equilibrio politico: intanto non vi sono rappresentate tutte le forze principali che siedono in Parlamento e, secondariamente, i vertici sono fortemente sbilanciati verso una sorta di tendenza giustizialista. Questo non è necessariamente un fatto positivo o negativo ma, è chiaro, che quando si tratta poi di assumere delle decisioni finiscono con l’andare in una sola direzione che non sempre è rappresentativa dell’opinione di tutta la Commissione.
Se, comunque, anche questa precisazione non la si volesse considerare, rimane il fatto che il Presidente è il responsabile della Commissione e del suo operato a tutti gli effetti. Da qui il fatto che il primo bersaglio, per quanto avvenuto sulle liste degli “impresentabili”, sia diventata Rosy Bindi: la sarebbe stata comunque, anche se non si fosse tirata in mezzo la vicenda di Vincenzo De Luca.

A questo punto, però, dopo che sono stati esposti tutti gli elementi, resta da porsi l’ultima domanda: perché una Commissione Antimafia, che sta lavorando bene e cercando di portare a casa leggi valide che vadano ad incidere concretamente nel contrasto alla criminalità organizzata, sente il bisogno di andarsi ad impelagare in un terreno scivoloso e profondamente dubbio delle candidature “impresentabili”? A chi giova una simile forzatura?

Probabilmente, la risposta va cercata prima di tutto dalle pagine dei giornali: per intere settimane hanno presentato soggetti delle biografie non limpide tra i candidati alle elezioni mettendo così in dubbio la credibilità dei partiti che li avevano espressi; lo stesso Roberto Saviano aveva lanciato svariati anatemi e il Movimento Cinque Stelle - infervorato dal livore ghigliottinaro più che dalla sete di giustizia e dalla smania di ergersi a unici paladini della legalità – li aveva ampiamente cavalcati così che gli altri partiti si devono essere sentiti in obbligo di ricostruirsi una dignità. Facile a quel punto cadere in un cortocircuito. Il PD, probabilmente, non voleva apparire come il partito che negava il consenso alla discussione sulla onorabilità o meno dei candidati, anche per far vedere che non vi era nulla da nascondere al proprio interno perché è evidente a tutti cosa sarebbe accaduto se M5S, SEL e la Presidente Bindi avessero espresso desiderio di rendere pubblici i nomi degli “impresentabili” e il PD avesse fatto battaglia per non farlo: su tutti i media sarebbero comparsi infervorati grillini a gridare “al complotto!” e il che il PD copre la mafia e via di questo passo. Un danno enorme nelle ultime settimane di campagna elettorale in un clima già poco sereno. Tuttavia gestire un percorso così controverso era tutt’altro che semplice e gli scivoloni – o i trappoloni – come si è visto erano dietro l’angolo.

A questo punto la domanda da farsi è un’altra: vale la pena che il PD si metta a inseguire ogni stupidata richiesta dal Movimento Cinque Stelle e fomentata dai media invece che fare le battaglie davvero giuste? 
Perché, è ormai chiaro, che stilare una lista di “impresentabili”, arrogandosi il diritto di definire alcuni candidati come tali sulla base di dati parziali e in nome di un diritto dei cittadini di venire informati su chi andranno a votare a pochi giorni dall’apertura delle urne è tutto tranne che una battaglia giusta e tranne che dare una corretta informazione agli elettori.
Aveva un senso impelagarsi in questa questione? Non era più sensato ammettere che questa cosa era una pagliacciata e come tale andava liquidata e, caso mai, intervenire con delle leggi affinché i veri “impresentabili” non possano candidarsi o fare in modo che vengano diffuse informazioni complete su tutti i presenti in lista e che poi ciascun cittadino si va a guardare se lo ritiene opportuno?

La Bindi, in quanto Presidente della Commissione Antimafia e esponente del PD, porta anche la responsabilità di aver assecondato questa deriva su pressione del Movimento Cinque Stelle che, oltretutto, aveva richiesto questo lavoro con l’intento meramente speculativo nei confronti degli altri partiti e non certo con intenzioni nobili e informative. L’atteggiamento non costruttivo del Movimento Cinque Stelle è sotto gli occhi di tutti, impossibile che fosse sfuggito a Rosy Bindi che, nonostante tutto, ha scelto di seguire la loro strada, sul loro stesso terreno, e poi addirittura di sposarne le tesi impallinando il candidato PD alla Presidenza della Regione Campania.
Insomma, una deriva dietro l’altra. 
Un modo non corretto di utilizzare il proprio ruolo all’interno di importanti istituzioni per regolare i conti nei partiti alla vigilia delle elezioni… non è esattamente un bello spettacolo che la politica dovrebbe dare ai cittadini.

A parte la vicenda politica tutta interna al PD, restano due risvolti che invece riguardano le ricadute di tutto questo sui cittadini: sarà interessante vedere quanto la lista degli “impresentabili” influirà sull’opinione pubblica e poi ci sarebbe da riflettere sul ruolo dei media.

Per quanto riguarda il primo punto, il dubbio è: può un cittadino recarsi serenamente alle urne per votare un candidato, che magari ha conosciuto durante la campagna elettorale e che può avere un buon consenso (non esclusivamente De Luca, anche un semplice candidato al Consiglio Regionale), definito pubblicamente “impresentabile”? Cosa deve pensare un cittadino che magari ritiene valido un candidato definito “impresentabile” dalla Bindi? Dov’è la credibilità della politica di fronte a questo scenario? Andare a definire un candidato “impresentabile” a pochi giorni dal voto, dopo che tutta la campagna elettorale è stata fatta e magari il consenso si è già costruito sembra un po’ un colpo di teatro grottesco, un modo poco carino per dire ai cittadini “scusate, fino adesso vi abbiamo preso in giro, quel signore lì che vi abbiamo presentato e che ha conquistato la vostra fiducia, non è ciò che sembra”. Il risultato è che la politica dà l’idea di assomigliare ad una farsa. È difficile che un consenso costruito con mesi o anni di lavoro vada in fumo in un giorno - a prescindere dalla reale onorabilità della persona - ma il vero dubbio è che in molti scelgano di non andare a votare perché delusi da questo ennesimo screditamento di tutti contro tutti senza che vi sia una minima traccia di interesse per il bene comune.

Sul ruolo dei media, invece, la questione è più seria e complessa: il modo in cui la pressione mediatica può orientare l’opinione pubblica è da tempo oggetto di preoccupazioni ma più che altro perché da un lato ci sono i partiti che si preoccupano di come i consensi possano essere orientati verso di loro e dall’altro lato vi sono invece gli operatori della comunicazione che si preoccupano di capire dove soffia il vento per alimentarlo così da vendere qualche copia in più dei giornali o alzare i dati di ascolto dei programmi tv. Il risultato di tutto ciò è che i media finiscono per farsi oggetto di mera propaganda a casaccio e non di informazione, come invece dovrebbero essere.
In merito alla vicenda degli “impresentabili”, lo si vede molto bene: i giornali hanno incrementato per settimane il sospetto che la politica stesse supportando soggetti dal curriculum sporco invece che allontanarli, poi, quando la Bindi ha fatto sapere che la Commissione Antimafia avrebbe diffuso una lista di soggetti se non “impresentabili” quanto meno discutibili, hanno spinto al massimo il dibattito sul quando questa lista sarebbe arrivata e sui possibili inclusi o esclusi e, ora, alla luce del pasticcio avvenuto (che va oltre il problema e le polemiche interne al PD) pubblicano fior di editorialisti e costituzionalisti che spiegano che quell’elenco non andava fatto, che è contro la Costituzione e lo Stato di diritto e fuori dalle prerogative dell’Antimafia. Sarebbe stato sufficiente che i media avessero gestito con più attenzione e con una pluralità di voci fin dall’inizio tutto il dibattito sul tema, invece che soffiare sul fuoco per poi arrivare ora a dire che forse ci si è bruciati.