mercoledì 26 dicembre 2012

Il 29 dicembre votiamo MIRABELLI alle primarie per i parlamentari Pd

Chi conosce Mirabelli sa bene quale è stato il suo grande lavoro di questi anni da consigliere regionale della Lombardia e quali battaglie lo hanno visto impegnato a fianco di chi abita nelle case popolari, in difesa del Parco Nord dai tentativi di Formigoni di farlo diventare un hub per i suoi elicotteri, ma anche l’attenzione a cercare una soluzione alle continue esondazioni del Seveso nella Zona Nord di Milano, le lotte in nome della legalità e della trasparenza sul territorio e nelle istituzioni (si pensi anche al suo lavoro da Presidente della Commissione regionale di Inchiesta sul San Raffaele per verificare le responsabilità di Regione Lombardia in quella vicenda e l’utilizzo dei soldi pubblici per coprire buchi in bilanci di società private).
Oggi si parla tanto di politici che pensano esclusivamente al proprio tornaconto invece che all’interesse dei cittadini e si tende a dire che tanto “così fanno tutti” e non è vero: le differenze ci sono tra le persone e si vedono. Mirabelli, per noi, c’è sempre stato e si è sempre impegnato in prima persona per portare avanti le nostre richieste, nel nostro interesse.
Adesso tocca a noi esserci, tocca a noi fargli avere il nostro voto (e quello dei nostri amici, dei nostri conoscenti e di tutte le persone che riusciamo a convincere in questo pochissimo tempo che ci resta) per fare in modo che possa - con il nostro consenso e il nostro pieno appoggio - arrivare al Parlamento e continuare a rappresentarci, lavorando per noi dall’istituzione più importante, in cui si decidono le sorti del nostro Paese.
Franco Mirabelli lo merita, perché è una persona seria, preparata, competente e ha le capacità, l’esperienza e le qualità giuste per poter andare a ricoprire quell’incarico e la cosa migliore che possiamo fare in questo momento per lui è aiutarlo ad arrivarci, grazie ai nostri voti.
Nulla è scontato, non ci sono esiti già scritti per queste primarie e per le liste per il Parlamento che ne seguiranno: molto di quello che accadrà dipenderà dall’esito del voto. Più voti ci saranno per Mirabelli, più concrete saranno le possibilità di fare in modo che arrivi in Parlamento e che ci arrivi bene, con un chiaro segnale di appoggio e di sostegno da parte nostra.
In tantissimi gli avete dimostrato appoggio andando a firmare per la sua candidatura. Adesso occorre fare in modo che tutte quelle firme si traducano in voti reali e che se ne aggiungano molti di più: per questo c’è bisogno dell’aiuto di tutti. 
Sabato 29 dicembre, non votiamo persone a caso e non ascoltiamo chi ci dice che tanto ci sarà sempre qualcuno che voterà il nostro candidato al posto nostro, ma votiamo chi davvero siamo sicuri di voler mandare in Parlamento.
Per votare occorre scrivere il cognome del candidato sulla scheda nello spazio per le preferenze (vedere scheda fac simile - si possono esprimere due preferenze a patto che siano una per un uomo e una per una donna).
Sabato 29 dicembre, a Milano e Provincia, votiamo e facciamo votare Franco Mirabelli
Passate parola!

Videospot:


martedì 18 dicembre 2012

Il mio sostegno a Franco Mirabelli alle primarie per i parlamentari Pd

Alle primarie per la scelta delle candidature al Parlamento del Partito Democratico, sono orgogliosa di sostenere Franco Mirabelli.
Sostengo Mirabelli perché, anche alla luce dell'esperienza che ha maturato in questi anni, ha saputo dimostrare competenza sulle questioni che si è trovato ad affrontare, attenzione ai nostri territori e alle persone che necessitavano di aiuto, capacità politiche e qualità umane di grande valore.

Personalmente, ho sempre pensato che in Parlamento dovessero andare a rappresentarci i "più bravi", coloro che meglio di altri hanno dimostrato di avere le competenze necessarie per dare gli indirizzi alla politica dell'Italia e, a maggior ragione in questo momento difficile, coloro che siano in grado di confrontarsi con i  tanti problemi del nostro Paese che la crisi ha accentuato. C'è un'Italia che vuole cambiare, che deve migliorare, che deve rompere con tanti meccanismi innescati da scelte sbagliate del passato e ci vogliono persone in grado di poter valutare correttamente tutto questo e, con il loro apporto, di poter dare finalmente un indirizzo giusto al nostro Paese, affinché il futuro non faccia paura ai cittadini ma sia qualcosa da costruire insieme. Il Parlamento italiano, dunque, non può e non deve essere il punto di approdo delle vanità personali, di improvvisati in cerca di visibilità o del ripiego di carriere giunte al termine, ma è il luogo in cui nasce e prende forma l'Italia. Un'Italia nuova che dobbiamo costruire e per cui è necessario che nei luoghi in cui si prendono le decisioni strategiche vi siano persone oneste, corrette, per bene, preparate, competenti, capaci e in grado di rappresentarci. Per questo scelgo Franco Mirabelli.

Sul sito di Mirabelli (www.francomirabellli.it) potete conoscere meglio il suo profilo e la sua attività, il suo impegno degli ultimi anni da consigliere regionale della Lombardia, le battaglie fatte e i risultati ottenuti. Il circolo PratoBicocca di Milano (in via Moncalieri 5 - Zona 9) a cui siamo iscritti, raccoglie le firme (da consegnare entro venerdì) a sostegno della sua candidatura (qui maggiori informazioni) e altri punti di raccolta ci sono a Milano e provincia.
Da iscritta, voglio sottolineare anche il grande apporto che Franco Mirabelli ha dato al nostro circolo Pd e alla nostra zona di Milano con la sua presenza costante e aiutandoci a mettere in piedi importanti e valide iniziative, con ospiti di rilievo, con cui abbiamo potuto permettere ai cittadini di entrare in dialogo con noi e di confrontarci insieme sui problemi quotidiani locali e sui temi più rilevanti della politica regionale e nazionale.

Personalmente, condivido in modo convinto molte delle idee portate avanti da Franco Mirabelli in questi anni e ritengo che, per noi, sia una grande risorsa e un valido candidato a rappresentare il Partito Democratico e tutti i cittadini in Parlamento e per questo lo sostengo e invito tutti coloro che risiedono a Milano e Provincia (che è il territorio del collegio valido per il voto) a fare altrettanto.

domenica 16 dicembre 2012

Primarie per la scelta dei parlamentari

Speravo che ci saremmo risparmiati l'album delle figurine ma pare di no. Quando scegliete, non pensate solo al giovane, alla donna, all'usatosicuro, alla novità, alla bella, alla categoriaprotetta ecc. ma pensate di scegliere quelli BRAVI e che rappresentino ciò che condividete. 
Il resto sono figurine buone per comporre un bell'album da far vedere ma poi non sempre sono utili al confronto con la gestione dei problemi del Paese.

sabato 15 dicembre 2012

Internet: regole e tutela dei diritti fondamentali

Convegno di esperti delle tematiche della rete e del diritto venerdì alla Bocconi di Milano, a cui sono intervenute anche importanti personalità delle istituzioni su un tema attualissimo oltre che delicato come quello del rapporto tra internet e privacy e tra nuove tecnologie e diritto d’autore.
Di particolare rilievo è stato, nella mattinata, l’intervento di Giovanni Busia (Segretario Generale Autorità Garante Per La Protezione Dei Dati Personali) sul tema di Internet, regole e data-protection. “Oggi il web influenza sempre di più la vita reale, non c’è più la separazione tra reale e virtuale. Usiamo sempre di più la tecnologia Cloud (o le email) e questo vuol dire immettere dati personali in rete e i dati hanno un valore”, ha segnalato Busia, specificando che “Facebook, ad esempio, vale in borsa esattamente quanti profili di utenti ha e, quindi, quanti dati personali contiene”. Secondo Busia, è molto importante l’idea di creare una “nuvola europea alternativa al monopolio USA di Cloud”, in quanto andrebbe a legarsi all’idea europea della tutela dei dati che è diversa da quella statunitense. C’è da considerare, infatti, il valore strategico dei dati e di chi li può controllare. Oggi, ha ricordato Busia, tutti sono interessati al possesso dei dati: anche le organizzazioni criminali oppure chi fa ricerche di mercato e analizza i comportamenti dei consumatori è interessata ai dati (si fa questo anche attraverso l’utilizzo dei sistemi di videosorveglianza, ad esempio i centri commerciali che controllano quanto tempo i clienti si fermano davanti ad una vetrina). “Chi controlla i dati, controlla la pubblicità. Chi controlla la pubblicità può controllare gli acquisti e chi controlla gli acquisti, di fatto, controlla la produzione”, ha evidenziato Busia.
Ma non è solo il marketing commerciale ad essere interessato all’analisi dei dati: Busia ha, infatti, ricordato anche il legame tra dati e i diritti politici: in Italia qualcuno sperava nel voto online ma non ha ottenuto molto; in USA i dati raccolti via web sono stati usati da Obama per fare una campagna elettorale mirata, quindi, il consumatore era considerato da influenzare con il voto.
Un problema da affrontare è quello della trans nazionalità della materia: Busia ha spiegato che Facebook, ad esempio, ha sede in Irlanda per comodità fiscali e deve rispettare alle leggi irlandesi in materia di privacy. Esiste, tuttavia, una rete di garanti dei vari Stati che discutono tra loro sui problemi relativi ai trattamenti dei dati. Oggi, però, secondo Busia, tutto questo non è più sufficiente: “Serve un regolamento comunitario valido per tutti, perché non sempre le regole dei singoli Stati concordano tra loro. Un’altra ipotesi è di far valere la legge del Paese dell’utente da tutelare, indipendentemente dalla sede del gestore dei dati, ma non è semplice da fare accettare”.
“La via della concorrenza al ribasso non è utile in questo settore, sul terreno dei diritti. – ha concluso Busia - La partita che si gioca su internet e sulla tutela dei diritti è molto concreta ed è per la libertà dei singoli e collettiva. I dati riversati nella rete sono un valore e non vanno regalati”.

Franco Pizzetti (Università di Torino) ha esordito accennando alla conferenza in corso a Dubai proprio su questo tema, in cui si sta dimostrando che gli Stati tornano ad essere protagonisti, in quanto sono coloro che possono decidere le regole senza lasciarle in balia dei soggetti economici (i quali evidentemente non sono stati in grado di regolarsi da soli). “Gli operatori economici ricorrono agli Stati, pur nella consapevolezza che rischiano, perché da soli non sono in grado di giungere ad accordi”, ha sentenziato Pizzetti.
Guardando la situazione italiana, Pizzetti ha sottolineato che il nostro Paese troppo spesso ha leggi complicate e il rischio che poi restino inapplicate. L’Agenda Digitale, ad esempio, impone - secondo Pizzetti - un salto enorme in avanti all’Italia ma noi siamo talmente indietro che è difficile riuscire a realizzarla. “Inoltre, non presenta norme su sicurezza, cyber security e formazione professionale (quindi probabilmente, chi l’ha votata non sa neanche cosa vuol dire ciò che hanno scritto). Si è approvata una norma di open-data sulla Pubblica Amministrazione come se questa detenesse il copyright dei dati che gestisce… questo dimostra incompetenza di chi ha scritto le norme”, ha accusato Pizzetti.
Addentrandosi nelle questioni, Pizzetti ha ricordato che con il web 2.0 ci sono sempre più operatori di rete e gestori di servizi che tendono ad offrire le stesse cose e, quindi, entrano in concorrenza tra loro. “I gestori di servizi hanno il vantaggio di non avere costi di gestione di rete e, quindi, hanno maggiori profitti da reinvestire. I gestori di rete hanno su di sé tutti i costi infrastrutturali.
Questa è una situazione che va ridefinita anche perché i costi della banda larga sono sempre più alti (in più si dice che non tocca ai soggetti pubblici costruire la banda larga). In Italia la banda larga è caricata sulla Cassa Depositi e Prestiti ed è un soggetto controllato dal Ministero del Tesoro. Questo da un lato ci consente di provare a mettere in piedi l’Agenda Digitale, però è denaro pubblico quello che viene usato per risistemare il sistema e, quindi, è denaro che si sottrae ad altri servizi. In altri Paesi non è così, anche chi gestisce servizi paga le infrastrutture. Nei Paesi in via di sviluppo tutto questo è più complicato ancora”, ha spiegato Pizzetti. In materia di privacy, Pizzetti ha affermato che “su questo terreno, l’Europa cede totalmente di fronte alla giustizia e di fronte alla sicurezza pubblica, secondo le norme stabilite dagli Stati. C’è un problema sul tempo che i dati devono essere tenuti a disposizione per eventuali necessità di controllo. Il garante europeo ha competenze limitate (ha ruolo consultivo e propositivo: può dare pareri, ma non ha ruolo regolatorio e ha scarso potere di controllo) e solo sui dati inerenti all’UE. Il mondo inglese, americano e asiatico ha linee molto diverse rispetto a quelle europee e difficilmente arriverà sulla nostra linea: occorre trovare un punto di incontro tra visioni completamente diverse. Così come complicato e più delicato è il tema del diritto all’oblio, che riguarda anche immagini storiche, non solo la reputazione degli utenti”.

Di governance di internet ha parlato Pasquale Costanzo (Università di Genova), il quale ha spiegato che la materia riguarda lo sviluppo di programmi condivisi che determinano l’evoluzione e l’uso della rete da parte dei governi. Ma anche altri soggetti interessati svolgono un ruolo nell’ambito della governance di internet, ad esempio chi ha accesso ai nomi di dominio, indirizzi IP, e poi riguarda anche proprietà intellettuali, libertà civili, libertà di espressione. Governance di internet riguarda anche la sicurezza e la protezione dei dati. I gestori dei siti hanno regole da rispettare, bisogna comunicare eventuali attacchi informatici, dimostrare di avere sistemi di protezione adeguata. Il profilo di identità digitale è ciò che è più a rischio. Ad oggi, secondo Costanzo, essa è controllata unilateralmente dagli Stati Uniti in opposizione ai governi degli altri Paesi e anche degli utenti. La natura globale della rete, tuttavia, rende difficile controllare i fenomeni nazionali.
“I problemi giuridici in materia di governance sono molti e non tutti superati. Dovrebbe occuparsene il Parlamento dato che poi vanno ad impegnare tutti ma non è detto che, ad oggi, ci sia una sufficiente base legale. Dal punto di vista economico, invece, bisogna preoccuparsi di raggiungere gli obiettivi stabiliti dall’Agenda Digitale e poi c’è il problema della digitalizzazione della Pubblica Amministrazione”, ha affermato Costanzo.
Costanzo ha spiegato poi che “Internet ha rivoluzionato il modo di concepire il mercato: piccole imprese possono competere con il mercato globale. Serve, però, una ristrutturazione informatica, strategie di impresa (piano quinquennale) e, quindi, firma digitale, fatturazione elettronica, open data, i-cloud, smart communities, banda larga… Serve una governance organica della rete nazionale anche per i settori della scuola, della giustizia. Senza contare che ci sono ancora troppi cittadini rimasti senza rete, mancano competenze digitali (pochi sanno creare una pagina web), anche se aumentano i servizi di base offerti dai portali sono pochi ad utilizzarli, la banda larga non è arrivata a tutti”.
Un ulteriore problema, segnalato da Costanzo, riguarda l’accesso alla rete da parte dei disabili: “La rete potrebbe agevolare il loro ingresso al lavoro ma ad oggi, di fatto, la rete, è preclusa ai non vedenti”, ha spiegato il professore.
Prima di fare la crescita, insomma, secondo Costanzo, l’Italia deve ripianare i divari che ha al suo interno (competenze digitali, infrastrutture, disabilità).
In materia di politica, la rete difetta di dibattito plurale: secondo Costanzo essa è utile per l’offerta informativa ma è il regno dei sondaggi, dei referendum, il gioco è condotto da opinion leader e da chi fa le domande e il rischio è che tutto si traduca in petizioni continue e messaggi copia-incolla. Oggi c’è stata una sperimentazione scadente della resa politica della rete in Italia (anche per il voto online), secondo Costanzo.

Governance di Internet nell’Unione Europea e dimensione internazionale è stato il tema affrontato da Filippo Donati (Università di Firenze), il quale ha esordito affermando che vi sono due aspetti importanti sulla governance: 1) La gestione della rete (rapporti tra operatori di rete fissa o mobile e gestori di servizi). Il tema è quello della neutralità della rete: alcuni pensano che i gestori possano assumere comportamenti discriminatori verso i fornitori dei servizi. Lo sviluppo tecnologico della rete, l’arrivo di reti di nuove generazione consente agli operatori di valutare i dati trasmessi e trattare i pacchetti in modo differente (magari possono voler penalizzare loro concorrenti diretti in alcuni campi, oppure trattare meglio chi paga di più)… questo diventa un rischio rispetto all’idea di rete aperta e globale conosciuta fino ad oggi. Serve bilanciare interessi contrapposti (gli operatori di rete voglio massimizzare profitti, gli utenti vogliono la massima qualità, i fornitori di servizi vogliono raggiungere il massimo numero di utenti). 2) Il ruolo dei provider, cioè dei mediatori. È un ruolo fondamentale per la società dell’informazione, basta pensare al video su youtube contro Maometto che ha scatenato le rivolte e provocato dei morti, gli USA hanno chiesto il ritiro del video ma youtube (consapevole dei contatti in aumento portati dal video) non voleva ritirarlo (poi alla fine lo ha bloccato solo in alcuni Paesi). “Se uno Stato può intervenire per far ritirare contenuti, diventa una limitazione della libertà: non avremmo avuto le primavere arabe se gli Stati avessero bloccato i portali che diffondevano i contenuti”, ha ricordato Donati.
Secondo Donati, c’è l’esigenza di tutelare la libertà di espressione e c’è anche la necessità di tutelare la privacy degli utenti.
Approfondendo il primo tema, cioè quello della neutralità della rete, Donati ha ricordato che va a collocarsi in un quadro normativo del 2009, secondo cui il cittadino deve poter accedere liberamente ai servizi che desidera. Poi c’è il principio di trasparenza: gli operatori possono scegliere ciò che vogliono ma essere trasparenti nelle scelte che fanno e devono comunicarlo (chi usa skype e lo rallenta, ad esempio, perché ha suoi servizi di voce, lo deve comunicare ai suoi utenti). La gestione del traffico delle informazioni può richiedere trattamenti di diverso tipo: alcune tecniche entrano nel corpo dell’informazione da trasmettere (ad esempio per combattere lo spam) e ci sono tecniche di controllo che incidono, quindi, sulla privacy. Il dubbio è quando un controllo viene fatto non solo per ragioni di antispam ma per veicolare poi pubblicità mirate. L’UE dice che si può fare ma a patto che gli utenti lo sappiano. Il problema è che sta scritto in quelle clausole di contratto piccolissime che nessuno legge e che, comunque, spesso sono complessivamente legate al servizio (non si può scegliere il servizio e solo un pezzo delle clausole). C’è, poi, un problema degli interventi dello Stato per verificare la sicurezza e la criminalità.
Oggi si attende ancora una risposta in materia, ha segnato Donati.
Sul secondo tema, quello del ruolo dei provider, invece, Donati ha affermato che se c’è una vendita di prodotti falsi o un problema di diffamazione, si tende ad attaccare gli intermediari (provider) perché hanno più soldi e più possibilità dei singoli utenti. Il rischio è che poi i provider vogliano avere il controllo totale delle informazioni sugli utenti e su ciò che trasmettono e questo può portare alla fine ad una censura o a una limitazione delle libertà. Oggi una normativa europea dice che il provider non può più essere l’unico responsabile, a meno che non sia a conoscenza che c’è un problema su alcuni contenuti che ha diffuso. È difficile, però, stabilire se un prodotto è contraffatto o meno. Anche gli strumenti di interventi dei provider sono dubbi: Facebook, ad esempio, cancella ciò che ritiene non valido ma magari per gli utenti lo è.
In materia di norme, Donati ha segnalato che ci sono principi codificati dall’UE, poco arriva dalle altre organizzazioni internazionali. “Gli Stati sono restii a cedere sovranità su questa materia perché incide su diritti e libertà. La conferenza di Dubai ha trovato l’UE con una posizione nettissima: l’UE ha un diritto codificato e qualsiasi decisione presa a Dubai non andrà ad incidere”, ha affermato il professore.
“Internet è uno strumento fondamentale per i diritti fondamentali ma può anche ledere i diritti fondamentali. Serve una governance per gestire il tutto. Il diritto UE si basa sul principio di neutralità della rete e di trasparenza e sulla responsabilità degli intermediari salvo che non fossero a conoscenza delle violazioni. In realtà ciascuno Stato membro ha delle normative sue e non sempre sono in accordo con questo. È necessaria un’armonizzazione”, ha concluso Donati.

Tommaso Edoardo Frosini (Università di Napoli) ha raccontato che ancora ci sono dubbi sul fatto che il diritto di accesso alla rete sia un diritto fondamentale. Le tecnologie contribuiscono ad accrescere le libertà. “La libertà informatica è stata elaborata nel 1981 come legata ad un nuovo liberalismo, nel senso di fede nella libertà e in ciò che è in grado di aumentarla. Internet fa parte delle nostre vite quotidiane”, secondo il professore.

Nel corso del pomeriggio, invece, i lavori si sono concentrati sul tema della proprietà intellettuale e del diritto d’autore. Pierangelo Marchetti (Università Bocconi) ha ricordato che da tempo si dibatte del tema del diritto d’autore e della proprietà intellettuale e su questo tema si sono sempre cercate dimensioni sovranazionali. Lo si è visto anche nella vicenda del brevetto europeo. “Una volta nell’innovazione si dava la priorità ai Paesi in via di sviluppo, oggi quei Paesi sono diventati i BRIC. Ogni volta si ripropone il tema della sovranazionalità e dell’internazionalità quando ci sono di mezzo innovazioni tecnologiche”, ha affermato Marchetti.

Il tema è stato ripreso, dal punto di vista economico, da Alfonso Gambardella (Università Bocconi), il quale si è maggiormente concentrato sul problema dei brevetti. “In altri Paesi il tema della proprietà intellettuale è centrale per lo sviluppo economico e ciò che vi sta intorno. Spesso il tema è trattato in modo ideologico, c’è uno scontro tra chi vuole privatizzare la conoscenza e chi no. Una proprietà intellettuale gestita bene può servire allo sviluppo economico. È un tema sovranazionale, i giochi si fanno in un ambito sovranazionale, non siamo su un’isola”, ha esordito Gambardella, segnalando che da alcune indagini risulta che la proprietà intellettuale, per chi la detiene, ha un valore asimmetrico (non tutti hanno la stessa percezione delle cose).
La funzione classica del brevetto – ha ricordato Gambardella - era quella della protezione. Oggi ci si chiede se la proprietà intellettuale serve ancora a protezione o no e ci si chiede se senza brevetti le aziende sarebbero incentivate lo stesso a fare innovazione o no. Nel manifatturiero, secondo i dati illustrati da Gambardella, sembra meno importante avere una protezione legale perché comunque possono impedire ad altri di usare i propri sistemi (le imprese hanno risorse diverse tra loro). Nel caso delle nuove imprese, invece, sembra che il brevetto abbia un ruolo importante. “In molti settori – meno per software e internet che hanno problemi diversi – come biotecnologie, nanotecnologie, meccanica ecc. le nuove imprese entrano più facilmente se hanno in mano qualcosa che sancisca legalmente la loro proprietà, anche perché non hanno grandi strutture o capitali ma si basano quasi solo sull’attestazione delle loro competenze. Quando chiedono finanziamenti, inoltre, il brevetto aumenta il loro punteggio per avere accesso al credito, quindi non è solo un fatto di protezione. Se queste imprese non hanno protezione, sembra che tendano a cercare di trasformarsi in manifatturiere ma poi i risultati non sempre sono buoni (chi è bravo ad avere idee non sempre riesce poi a svilupparle con mezzi adeguati). C’è chi fa solo i brevetti e poi li rivende. Il brevetto è utile alle imprese giovani, alle altre meno perché sono già rodate e hanno più record per essere valutate”, ha affermato Gambardella.
Secondo Gambardella , inoltre, ci sono elevati costi sociali legati alla produzione intellettuale: oggi c’è un’eccessiva frammentazione della proprietà intellettuale, è difficile sapere cosa fanno gli altri e si rischia di ricercare le stesse cose di altri senza saperlo. Le aziende si tutelano scambiandosi i brevetti a vicenda ma questo diventa oneroso: si pagano altre aziende per evitare di essere citate in giudizio. Oppure c’è chi compie innovazioni a brevetti vecchi per non farli scadere (questa pratica si sta diffondendo in Europa).
“Negli Stati Uniti, a risolvere le controversie sui brevetti, c’è il giudice – ha ricordato Gambardella – mentre in Europa ci sono uffici dei brevetti che decidono se le cose sono brevettabili, se si possono condividere o no, se le innovazioni sono legate davvero ai brevetti vecchi o si fa finta per proteggerli ancora. Chi attribuisce il brevetto lo fa perché ritiene che si tratti di un’innovazione nuova, di valore e non ha la priorità economica in mente”.
Oggi c’è l’idea di creare un brevetto unico europeo, 25 Stati lo vogliono (mancano Italia e Spagna per ragioni linguistiche). Oggi il brevetto europeo è presentabile in lingua inglese, francese e tedesca. La questione linguistica pone, però, anche dei costi elevati perché servono traduzioni. Qui, secondo Gambardella, c’è una decisione sovranazionale che ci influenzerà e la posizione italiana - al momento - è quella di restare fermi.

La giurista Maria Lillà Montagnani (Università Bocconi) ha spostato la discussione sul diritto d’autore. “L’incontro tra tecnologia e rete ha portato a violazioni del diritto d’autore. L’opera dell’ingegno prima era riversata su contenuti materiali e quindi più facili da controllare, con internet si parla di byte e quindi la circolazione è immateriale e difficile da controllare. Il diritto d’autore non è un monolite, ma un insieme di tanti diritti e tante facoltà. La natura già frammentata del diritto d’autore acquista maggior complessità quando l’opera esce dall’autore e arriva al pubblico attraverso il mercato. Se l’obiettivo dell’autore è di portare l’opera al pubblico, ci sono già dei problemi: il diritto d’autore non è un monopolio ma ci sono dei limiti. I diritti che compongono il diritto d’autore hanno dei confini, ci sono poi singole eccezioni ma molti usi sono consentiti. Quando l’opera dell’ingegno è diventata digitale ai fini della fruizione online l’equilibrio è saltato e il diritto d’autore è venuto meno. Ci sono state delle pressioni per avere delle norme e ne sono state fatte di frettolose (ad esempio il Digital Millenium Copyright) Internet, inoltre, modifica delle dimensioni di come il contenuto viene creato, non è solo un problema di distribuzione ma anche di percezione”, ha esordito la giurista.
“Le licenze libere sono nate per il software libero e riguardano alcuni contenuti. L’idea di fondo di una licenza libera è che, pur mantenendo la titolarità dell’opera, se ne lascia libero l’utilizzo (senza che ne venga fatto uso commerciale o ne vengano fatte modificazioni), è un copyright flessibile adeguato alla rete”, ha spiegato Montagnani, ricordando, però, che alcuni contenuti generati dagli utenti sono in palese violazione del diritto d’autore (ad esempio, pezzi di film messi in rete), altri sono propri e amatoriali mentre altri ancora sono a metà e non è certo identificare cosa siano. Quest’area grigia mostra uno scollamento tra norma giuridica e norma sociale: non c’è la percezione che alcune cose non si possono fare oppure si ritiene che anche se la legge lo vieta sia giusto farlo e allora bisogna trovare delle nuove formule più adeguate. Il diritto d’autore è obsoleto, servono nuove norme adeguate al nuovo mercato. Il quadro attuale non soddisfa nessuno: gli autori non guadagnano, i distributori nemmeno perché pensano che il problema sia la pirateria, i provider contestano limitazioni alla loro libertà, gli utenti non sono contenti perché si sentono limitati. Si impone una riforma. A livello comunitario si sta cercando di farlo, un po’ con l’Agenda Digitale e l’idea di un mercato interno unico. Se ne parla molto dal 2011. L’idea era di ampliare l’offerta legale per evitare che la gente si rivolgesse alla pirateria ma i dati di AGCOM, però, mostrano che, in realtà, nonostante gli ampliamenti dell’offerta legale, il livello di pirateria resterebbe uguale”.
La parola chiave comunque, secondo la Montagnani, è “modernizzare” in materia di diritto d’autore: “Va superata la territorialità del diritto d’autore, però. Senza questa difficoltà all’interno dell’Europa, i problemi resteranno aperti. Il mercato intanto va avanti e si arriva a un accesso ai contenuti di entertainment anche attraverso i servizi i-cloud e questo è anche oltre le licenze flessibili. Va ripensato, quindi, il concetto di autorizzazione e il concetto di privativa. Il diritto d’autore va temperato con la libera concorrenza e con altro”.

sabato 1 dicembre 2012

Le anti-regole di Renzi

Che ci fosse qualche dubbio sulle regole delle primarie del centrosinistra, personalmente, l'ho sempre pensato e anche espresso, così come non ho mai nascosto le mie perplessità sul doppio turno e sul come sia stato pensato, però, a lato che la partita è cominciata e, vista l'enorme partecipazione dei cittadini al primo turno (oltre tre milioni di elettori), ritengo anche che la discussione sulle regole avrebbe potuto essere serenamente archiviata e i candidati in campo avrebbero potuto concentrati a giocare la partita sui contenuti. Purtroppo, così non è: evidentemente, uno dei due candidati non ha contenuti da presentare e allora continua a straparlare di regole. Che Renzi fosse un candidato "di rottura" lo si sapeva e, girando un po' per i seggi domenica 25 novembre, era chiarissimo che chi è venuto a votarlo, principalmente lo faceva inneggiando alla "rottamazione" (di tutto, dell'apparato, dei burocrati, di D'Alema e della Bindi, del Pd) e, quindi, era ovvio che anche la settimana del ballottaggio se la sarebbe giocata su questo tema - in fondo è più facile parlare "contro" che non parlare "per" - tuttavia, qualche riflessione è il caso di farla.
I "renziani" non iscritti al Pd che sono venuti a votare alle primarie, nella maggior parte dei casi, non sono venuti a registrarsi prima del 25 novembre ma si sono presentati direttamente il giorno stesso, oppure hanno fatto la preregistrazione online (che, però, doveva poi essere convalidata comunque da chi registrava). La maggior parte di questi, una volta arrivati, si sono anche lamentati delle code protestando vivacemente (al circolo Prato Bicocca di Milano, dove mi trovavo, abbiamo avuto 1129 elettori e la coda era al massimo di 5-7 minuti nell'ora di punta, cioè dalle 10:30 alle 12:00 e dalle 16:00 alle 17:30) e qualcuno si è anche lamentato di dover lasciare il contributo di 2 euro.
Capisco che la società moderna va di corsa, capisco che si ha sempre fretta di qualsiasi cosa, però, era una domenica e chi ha segnalato di avere problemi di tempo particolari è stato fatto passare senza problemi. Tutti gli altri che fretta avevano di non saper aspettare 5 minuti? Quando si va alle poste o dal medico non si attende pazientemente il proprio turno? Quando si va a votare alle elezioni vere, nei seggi istituiti dentro ai plessi scolastici, e capita di trovare un po' di coda, ci si mette ad imprecare contro scrutatori e presidenti perché non si ha voglia di fare la fila? Credo proprio di no e allora mi domando per quale ragione, chi è entrato nei nostri circoli o nelle sedi affittate per fare da seggi, sia arrivato con tanta aggressività verso i volontari che cercavano di farli funzionare?
Forse, se fossero venuti a registrarsi prima, come era stato più volte segnalato, avrebbero fatto meno coda. Forse, se anziché imprecare contro chi era lì a impiegare il proprio tempo e giornate intere per far funzionare le primarie, si fossero messi a dare una mano e ad aggiungersi ai volontari, le code si sarebbero smaltite prima.
Quello che è accaduto è offensivo nei confronti di chi a queste giornate così belle e partecipate ha dedicato tanto tempo e passione e Renzi e suoi supporter farebbero meglio a tenerne conto invece di incattivire la gente con problematiche inesistenti.
Il buttarla in caciara subito dopo che tre milioni di persone sono venute a votare è stato un altro errore.
La polemica sollevata da Renzi e dai renziani sulle regole del ballottaggio è demenziale: che gusto c'è a continuare a incattivire la gente, a volerci fare apparire a tutti i costi come chiusi, a voler far venire le persone a votare non a favore suo ma contro gli altri? Mi pare che i toni usati negli ultimi giorni sono stati davvero fuori luogo. Le regole stabilite da queste primarie - per quanto non piacciano neanche a me - sono state approvate e accettate da tutti i candidati e allora non si capisce perché serve fare tutto questo casino a metà della partita. Quando si va a votare alle elezioni vere si contestano le regole? A me non sembra.
Votare alle primarie non è né un diritto né un obbligo, è una libera scelta. Il tutto è messo in piedi grazie alle strutture dei partiti promotori (e questo dovrebbero tenerlo ben presente anche i signori della società civile che tanto schifano i partiti e i loro apparati ma poi vengono ad appoggiarsi proprio ad essi) e forse un po' meno insulti sarebbero graditi. Chi sceglie di votare alle primarie, sceglie di stare alle regole (che, in questo caso, prevedevano preregistrazione e pagamento di 2 euro). Sicuramente ci sono stati molti aspetti da migliorare in queste primarie (ad esempio la questione delle preregistrazioni online che, di fatto, erano inutili), ma non si migliorano ridicolizzando tutto quanto.
Renzi - che sembra tanto bravo a parlare fuori dai recinti del centrosinistra - avrebbe dovuto invitare i cittadini a votare per lui e per le idee che lui portava nel Pd, avrebbe dovuto provare a portarli dentro e non contro. Questo non lo ha saputo fare e, dai toni usati dai suoi sostenitori che venivano ai seggi, si intuiva molto chiaramente.
Nel 2009, durante la campagna congressuale, anche per Franceschini si sono fatte battaglie dai toni accesi, anche lì c'era una richiesta forte di innovazione e cambiamento rispetto a certi modi antichi di fare politica e certe persone che li incarnavano, ma Franceschini ci invitava a venire dentro al Pd e a votare per costruire insieme un partito più nuovo e moderno.
A Renzi manca totalmente l'aspetto costruttivo (che è la parte più difficile), invita a prendere a martellate quello che c'è, dice di volere il futuro ma per farlo continua a richiamarsi al passato, contestando tutta la storia di governo del centrosinistra (e mai quella del centrodestra) mentre della sua idea di cosa vuole per il futuro anche del Pd ha detto pochissimo (a parte questa ossessione del mettere tutto online, senza capire che la modernità va oltre ben la rete). A Renzi manca l'inclusività, la costruttività, il far sentire parte di un progetto comune e anche la sua visione di società non è chiara: dice frasette a spot e cambia idea a seconda di chi lo sponsorizza. Questo si riflette sui suoi elettori e il risultato è l'insulto continuo che vediamo in questi giorni. Ne avremmo fatto tutti volentieri a meno, anche perché uscite come quelle delle pagine comprate sui giornali per spingere persone non registrate a farlo, violando il regolamento stabilito, costringono l'altra parte a rispondergli e a perpetrare una discussione tutta interna che agli italiani non interessa minimamente.

sabato 24 novembre 2012

San Raffaele e Regione Lombardia

Conferenza stampa di Franco Mirabelli - Milano, 23 novembre 2012
Franco Mirabelli, Presidente della Commissione regionale di inchiesta sul San Raffaele, ha presentato nella mattinata di venerdì a Milano la sua relazione sul lavoro di indagine svolto in questi mesi. Un lavoro, quello della Commissione di inchiesta, ormai giunto alla fase conclusiva, dopo una decina di sedute e di audizioni e incontri con assessori alla Sanità, dirigenti del San Raffaele, docenti universitari, rappresentanti di organizzazioni sindacali. Un lavoro che, tuttavia, a causa della fine prematura della consiliatura della Regione Lombardia non ha potuto trovare una sintesi comune tra i componenti della Commissione di inchiesta ma che Mirabelli ha ritenuto comunque importante presentare, anche in virtù dell’attenzione suscitata dalle vicende del San Raffaele nell’opinione pubblica.
Due sono stati i compiti della Commissione di inchiesta istituita dal Consiglio Regionale e presieduta da Mirabelli: innanzitutto quello di verificare se la normativa regionale avesse delle falle che hanno consentito lo scandalo che è avvenuto, oltre che verificare che davvero al centro delle normative della Regione ci fosse davvero l’interesse pubblico; e poi il cercare di stabilire delle regole affinché non accadano altri episodi del genere.
“La Regione Lombardia ha in essere una convenzione con il San Raffaele derivante dall’accreditamento avvenuto nel 1998 e ha, in questi anni, elargito finanziamenti e contributi a progetti sulla base del riconoscimento dell’esperienza sanitaria e scientifica dell’ospedale e di norme successive finalizzate alle funzioni non tariffate, a progetti e a premiare le eccellenze. Una grande quantità di denaro pubblico ha consentito al San Raffaele di funzionare”, ha scritto Franco Mirabelli nella sua relazione.
Finanziamenti concessi e mai controllati perché, ha spiegato Mirabelli durante la conferenza stampa, “Il San Raffaele non ha mai dovuto fare neanche il bilancio consolidato e ha drenato tra il 4 e il 6% dell'intero fondo regionale per le funzioni non tariffabili: tra il 2002 e il 2004 il finanziamento pubblico all'ospedale è passato da 23 milioni a 37.58 milioni e nel 2009 sono stati assegnati 58 milioni. Tra il 2007 e il 2009 ha ricevuto inoltre circa 54 milioni di finanziamenti sui 176 messi a disposizione da una legge regionale del 2007 per finanziare i progetti dei soggetti no profit in ambito sanitario”.
Finanziamenti pubblici ingenti, dunque, che tuttavia non sono bastati ad evitare al San Raffaele l’oltre un miliardo e mezzo di euro di debito accumulato nel tempo, che ha poi portato al crack. Ecco perché – scrive ancora Mirabelli nel testo della sua relazione - “Seppure non sia riscontrabile una responsabilità diretta della Regione nella vicenda che ha portato al crack del San Raffaele è evidente, da questa ricerca, che l’attuale quadro normativo regionale ha facilitato e non impedito il verificarsi delle distorsioni che hanno portato allo stato di dissesto. La Regione non è stata in grado né di stabilire criteri e requisiti sufficientemente rigidi e chiari per accedere alle risorse pubbliche né di svolgere i necessari controlli per garantire la trasparenza dovuta quando si beneficia di soldi pubblici”.
La Regione, in pratica, secondo Mirabelli, ha finanziato il San Raffaele senza avere chiaro la specificità dei progetti che avrebbe dovuto sostenere con i singoli finanziamenti e l’interesse pubblico che avrebbe dovuto ispirarli, in quanto questi si legavano a funzioni non tariffabili per ospedali con più presidi territoriali (per cui vengono elargiti più soldi a chi fattura di più), alla scelta di finanziare le “eccellenze sanitarie”, e all’assistenza di pazienti extraregionali.
La proposta avanzata da Mirabelli, dopo aver presentato questo quadro - in cui è evidente che servono criteri di accreditamento e controlli più stringenti – è quella ridurre la quota di fondi destinati alle funzioni non tariffabili (spesso assegnati con discrezionalità) e, soprattutto, di chiedere la certificazione esterna dei bilanci e soggetti terzi in grado di controllare ciò che realmente avviene.
La questione politica, invece, posta da Franco Mirabelli riguarda l’utilizzo del finanziamento pubblico per l’ottenimento del pareggio di bilancio delle strutture private. “Il quadro apparso alla commissione mostra come il soggetto regolatore regionale che dovrebbe indirizzare le risorse per il soddisfacimento dei bisogni sanitari e dell’interesse pubblico, in realtà con modalità diverse ha sostenuto una struttura come il San Raffaele, subendo il peso, la forza ed il condizionamento di un’eccellenza sanitaria che però per funzionare ha avuto bisogno di molti soldi pubblici che non hanno comunque consentito di evitare il crack finanziario. In sintesi la vicenda del San Raffaele pone con evidenza il tema delle finalità della contribuzione pubblica: se sia giusto cioè che i finanziamenti pubblici siano destinati a garantire gli equilibri di bilancio delle strutture private o se i finanziamenti pubblici stessi debbano essere finalizzati solo al raggiungimento di finalità sociali di interesse pubblico”, ha scritto Mirabelli nella sua relazione. La Regione, infatti, - ha evidenziato Mirabelli - ha elargito finanziamenti che di fatto sono andati a ripianare il buco dei bilanci di aziende ospedaliere pubbliche e private. Se per i soggetti pubblici, secondo Mirabelli, può accadere, così non può essere per i privati che dovrebbero avere altri investitori a cui sta a cuore il proprio investimento e dovrebbero renderlo competitivo.

giovedì 15 novembre 2012

Ambrosoli e i partiti

La discussione che sta avvenendo su e con Umberto Ambrosoli, in merito alle modalità della sua candidatura alla Presidenza della Regione Lombardia in questi giorni è a dir poco surreale.
Ambrosoli è un candidato autorevole che sicuramente ha la capacità di raccogliere attorno a sé un consenso largo ma che da subito ha posto delle condizioni piuttosto nette per accettare la candidatura, prima fra tutte quella che riguarda la polemica sulle primarie e sui partiti che le avevano indette.
Personalmente, lo avevo già detto tempo fa che c’era qualcosa di anomalo nel modo di porsi di Ambrosoli. Qualcosa che ha lasciato non poco sgomento tra la “base” dei partiti che dovrebbero sostenerlo.
Tutta la discussione – che ad un certo punto è sembrata superata – sulla scelta del lessico (non più “primarie” ma “consultazioni civiche”) è sembrata completamente fuori dalla realtà perché le primarie per loro natura sono civiche in quanto mirano a coinvolgere i cittadini e sono uno strumento utilizzato per favorire la partecipazione, se poi non si vuole che a indirle siano esclusivamente i partiti ma anche movimenti e comitati civici, basta sedersi al tavolo delle trattative senza suscitare tutte queste polemiche. Ma la realtà è un po’ più spinosa di una semplice questione lessicale: la verità è che al candidato Presidente e al suo entourage non piacciono i partiti e ha fatto di tutto per tenerli fuori o all’angolo, o almeno questo è quello che ha lasciato sembrare.
Ad Ambrosoli, dunque, non piacciono i partiti, non vuole essere il candidato dei partiti. Di questi tempi, con quello che si dice dei partiti e della politica è abbastanza comprensibile agli occhi dell’opinione comune. Forse Ambrosoli ritiene che sia più facile vincere "rottamando" i partiti oppure ritiene più logico conquistare un consenso più ampio non legandosi a una coalizione di partiti marcata. Tutti ragionamenti possibili ma non accettabili per uno che si candida alla Presidenza di una Regione e che verrà eletto in prevalenza con i voti portati a lui proprio dai partiti che tanto vuol tenere lontani e che pure andranno a eleggere dei consiglieri regionali che dovranno poi votare in Consiglio anche ciò che il Presidente e la sua giunta fanno.
Oltretutto i candidati consiglieri che faranno campagna elettorale per far eleggere se stessi e il Presidente cosa dovranno dire agli elettori? “Votate per me ma il mio partito fa schifo”? “Votate per me e il mio partito ma poi non conteremo niente sulle decisioni della Regione perché il Presidente ci lascerà senza niente in mano perché ha deciso che i partiti non li considera”?
L’impostazione della discussione come è stata avviata da Ambrosoli o dal suo entourage per come è stata riportata dai giornali è pessima e questo, alla “base” dei partiti, è ancora meno digeribile della questione delle primarie.
Senza contare che in questo modo i partiti sono apparsi all’opinione pubblica come nettamente subalterni alle idee bizzarre del candidato Presidente: poche sono state le dichiarazioni ufficiali in cui si rivendicava la decisione stabilita e quasi tutte smentite il giorno successivo dallo staff di Ambrosoli. Forse una conferenza stampa congiunta aiuterebbe ad appianare le polemiche e gli smarrimenti ma è chiaro che, ad oggi, non si è giunti ad alcun accordo definitivo, altrimenti tutto questo vespaio non esisterebbe.

A questo punto, però, tre sono i temi da affrontare: il primo riguarda il rapporto tra Ambrosoli e i partiti che vorrebbero sostenerlo. Quando si gioca insieme, le regole si stabiliscono insieme, non le fa uno da solo e, da questo punto di vista, mi pare che le premesse non promettano bene perché se già il candidato e i suoi fedelissimi vogliono tenere all’angolo i partiti prima ancora che sia cominciata la campagna elettorale, cosa mai potrà succedere una volta che sarà eletto? Ambrosoli è sicuramente il candidato che può vincere, ma il fatto che vinca lui non coincide necessariamente con la vittoria del centrosinistra e questa storia delle primarie già ne è un brutto segnale. Tradotto, non è una buona partenza quella per cui i partiti mettono la faccia per il candidato e il candidato non solo non vuole metterci la faccia per loro ma vuole anche tenerli fuori, anche perché se intende tenerli fuori adesso che c’è la campagna elettorale, a maggior ragione si rischia che voglia poi tenerli fuori anche dalla giunta una volta che il candidato sarà eletto. Il Partito Democratico, così come gli altri della coalizione, metteranno la faccia e l’impegno nella campagna elettorale per far conquistare ad Ambrosoli la Presidenza delle Regione Lombardia e Ambrosoli in cambio cosa mette per questi partiti?
Forse Ambrosoli e il suo entourage farebbero meglio a tenere presente quanto scrive Pippo Civati: “Prima di tutto per rispetto nei confronti di chi milita in quei partiti che tanto dispiacciono a chi si autodefinisce civico: i democratici, ad esempio, sono quasi tutti soggetti che sono «civici» fino alle 18, o le 19, o le 20, perché dedicano il loro tempo libero alla politica (diventando «politici» in serata), ma di giorno lavorano. E, vi giuro, sono in tutto simili ai professionisti del civismo. Anzi, di solito hanno meno potere di loro, nella società in cui vivono. In secondo luogo, perché nel momento stesso in cui si denigrano i partiti, poi si chiede il loro sostegno, la loro organizzazione e il loro voto, senza il quale si andrebbe poco lontano”.
Il secondo punto è la figura di Ambrosoli: sicuramente è un candidato che può vincere, sicuramente prenderà molti voti al centro e magari anche a destra (un po’ lo dimostrano gli attestati di stima e sostegno più disparati che sta ricevendo) e molto probabilmente ciò avviene perché lui non è espressione del centrosinistra e si vede. Si vede moltissimo la diversità di Ambrosoli dalla coalizione di centrosinistra: si vede da come parla e da quel che dice, il suo è un linguaggio altro e la “base” che milita in quei partiti, pur cogliendone l’opportunità di una vittoria quasi certa, questa alterità del candidato la percepisce benissimo. Il dubbio a questo punto sorge sul tipo di cambiamento che una figura del genere può esercitare dentro l’istituzione Regione Lombardia, dopo 17 anni di governo formigoniano e dove Il Celeste ha piazzato suoi uomini (che a questo punto o si andranno a trovare nuovi punti di riferimento o potranno divenire un serio ostacolo a eventuali nuovi modelli che i nuovi eletti vorranno apportare). Sarà un cambiamento vero quello che propone Ambrosoli? Sarà il cambiamento che chiede il centrosinistra da tempo o sarà altro perché altri sostenitori di Ambrosoli hanno altre idee e altri interessi in gioco? Questo non è un dato da poco perché si andrà a determinare il futuro della Regione Lombardia. La “base” dei partiti, che non è tanto ingenua, questo lo capisce bene e non si fida: non si fida di un uomo che non solo non è loro ma che addirittura dice neanche troppo velatamente che non li vuole. Alla fine la “base” si richiama all’ordine e lo voterà, come ha sempre votato qualsiasi cosa o quasi che veniva proposta o imposta e lo farà votare ma questo non significa che gli accorderà la fiducia o che sboccerà l’amore se dall’altra parte non si mostreranno maggiori aperture di quelle mostrate fino ad ora.
Il terzo aspetto riguarda proprio le persone che militano nei partiti. In un tempo in cui prevale la logica dell’antipolitica, del voler eliminare tutto ciò che ha a che fare con i partiti, è sicuramente più facile ottenere successo mandando un messaggio in quel senso, ma non è questo il messaggio che deve mandare una persona seria e autorevole che si candida a guidare un’istituzione. La politica, i partiti e molti esponenti che hanno operato in questo ambito sicuramente devono cambiare, migliorarsi e alcuni anche farsi da parte, tuttavia vale la pena di ricordare che chi si candida lo fa per andare a ricoprire un ruolo politico dentro ad un’istituzione e quindi farà politica e poco importa se lo fa dentro a un contenitore che si chiama “partito” o “movimento” o in qualsiasi altro modo perché comunque nessuno lo può fare per se stesso ma solo e sempre rispondendo ad un ideale e ad un programma condiviso su cui si sono chiesti i voti. Inoltre, all’interno dei partiti e delle organizzazioni politiche non esistono solo gli esponenti di spicco ma esiste anche la “base”, gli iscritti, i militanti, le persone che quotidianamente dedicano una parte del loro tempo e della loro vita a tenere aperti i circoli, distribuire materiale informativo, mettere in piedi delle iniziative… I partiti sono fatti di persone che sono cittadini come gli altri e meritano rispetto per il tempo e la passione che impiegano nelle attività politiche o ad esse correlate. Forse Ambrosoli e il suo entourage farebbero meglio a cercare di aiutare i partiti a far vedere questa realtà e queste persone, invece, di offendere denigrando ciò per cui loro dedicano tanto tempo e impegno. Pisapia ha conquistato la città di Milano uscendo per strada, stando nelle piazze, incontrando le persone vere e non solo i frequentatori dei salotti buoni (che pure servono), Ambrosoli non si illuda di conquistare la Regione solo andando in televisione o scrivendo su internet o sui giornali e con l’appoggio dei salotti.
Ambrosoli e il suo entourage vadano a vedere chi c’è nei “partiti”, non abbiano paura di “sporcarsi le mani”, non facciano quelli che “mi si nota di più se vengo ma sto in disparte”, entrino nei circoli dei partiti, vadano a incontrare le persone che quotidianamente dedicano il loro tempo all’impegno politico, vada a conoscere chi appende i giornali nelle bacheche, che monta i gazebo e li tiene aperti anche se piove e se fa freddo, chi distribuisce i volantini ai mercati, chi cucina e serve ai tavoli nelle feste dei partiti, chi studia il modo di far arrivare un messaggio o di coinvolgere il quartiere su un incontro o su un tema. I circoli del Pd sono aperti in questi giorni per registrare le persone che vogliono votare alle primarie del 25 novembre per la scelta del candidato premier (qui ci sono gli orari del circolo a cui sono iscritta), vada a vedere chi sono quelli che ha lasciato all’angolo con i messaggi che ha lasciato trapelare e che invece sarebbero ben felici di accoglierlo e di poter dedicare un po’ del loro tempo anche a lui e alla sua campagna elettorale ma a patto che il rapporto sia reciproco e paritario.

martedì 13 novembre 2012

Primarie in Lombardia

Anche stamattina leggo i giornali e mi stupisco di certe dichiarazioni di Ambrosoli in merito alle primarie. Ma siamo sicuri che sia il candidato giusto? Mi pare che le premesse non promettano bene... L'impressione è che abbiamo un candidato che ci voglia tenere all'angolo. Figuriamoci cosa può succedere quando il candidato viene eletto. Qualcuno glielo spieghi a quel signore lì che senza il Pd non va da nessuna parte, perché la campagna elettorale a farla alla fine siamo noi e da noi arriva la maggior parte dei voti.

lunedì 12 novembre 2012

Liste

Sui giornali si fanno i nomi dei bersaniani e dei renziani che si starebbero garantendo il posto in Parlamento. Scelte opinabili ma legittime. In tutto questo, però, non si parla degli uomini di AreaDem (che comunque stanno facendo campagna per Bersani)... non è che Bersani se li è dimenticati? 

venerdì 9 novembre 2012

Ambrosoli e le primarie

Ambrosoli dovrebbe essere il candidato di tutti. Spiace che il suo sì alla candidatura arrivi dopo che erano già state indette le primarie e piuttosto condizionato al fatto che le primarie non si facciano. Legittima la sua paura di finire impallinato (a volte succede). Se avesse detto di sì a primarie non ancora indette il problema non si sarebbe posto. Adesso ci sono dei nomi in campo (di cui in molti casi si potrebbe anche fare a meno) e una data indicata per le primarie che una parte della base sembrava gradire. Se le primarie servono per regolare i conti tra gruppi dirigenti e spartirsi correnti e poltrone è chiaro che diventano un problema, se invece servono per coinvolgere i cittadini e attrarre l'attenzione sui progetti e i candidati in campo hanno un senso. La domanda è con che logica si pensava di andare a queste primarie? Con che logica si stavano formando i sostegni ai personaggi in campo? Se la logica era quella della spartizione post-competizione, in cui qualche dirigente pensa di misurare il proprio peso all'interno dei partiti in base ai consensi che sa raccogliere, meglio fermarsi qui e cercare di lavorare unitariamente su Ambrosoli. Se la logica era quella di una sana competizione, senza estremizzazioni e scontri tra tifoserie interessate, forse Ambrosoli farebbe meglio ad accettare le regole del gioco e parteciparvi. Quando si gioca insieme, le regole si stabiliscono insieme, non le fa uno da solo. Anche perché se la partenza è questa, mi domando come sarà il seguito... E dato che la campagna elettorale alla fine la fa il Pd, non vorrei che poi il Pd fosse quello che rimane schiacciato senza niente in mano (con il Comune è accaduto a sinistra, qui potrebbe accadere al centro).

domenica 4 novembre 2012

Report

Personalmente non amo Report in generale, indipendentemente dall'argomento di cui si parli perché trovo che spesso non siano i fatti a parlare ma i giornalisti a presentarli in modo troppo tendenzioso. Di questa sera non mi è piaciuta l'impostazione. Sul sistema di Formigoni c'era molto da dire ma si è detto ben poco e, per lo più, fatti già ampiamente noti. Non è stato evidenziato per niente come alcune vicende abbiano ricadute sulla Lombardia e quante implicazioni ne derivino da quel sistema di potere e, nella seconda parte, si è posto troppo l'accento sulle scelte personali (discutibili) di Formigoni senza farne capire le eventuali valenze pubbliche. Un'occasione di fare informazione persa. L'unica notizia interessante della puntata sono le dichiarazioni finali di Valentini (ex capogruppo Pdl in Consiglio Regionale) sul fatto che una parte del Pdl stesso non sopporti più Berlusconi e considerano quel partito come morto.

sabato 3 novembre 2012

Primarie

Quelli il Pdl che ironizzavano sulle regole delle primarie del Pd adesso litigano sulle regole per le loro primarie ed esattamente per gli stessi motivi! Uno spettacolo esilarante!

giovedì 1 novembre 2012

L'ipocrisia di Travaglio

Marco Travaglio è ipocrita. Dovrebbe smettere di usare l'alibi del giornalismo come foglia di fico per mascherare le sue simpatie grilline e dipietriste. Farebbe meglio a dichiarare apertamente da che parte sta e fare liberamente il tifoso della propria parte e delle proprie idee, senza cercare di fare passare tutti gli altri per delle schifezze. Non è giornalismo quello che ha praticato questa sera durante la puntata di Servizio Pubblico ma un puro atto di propaganda politica. Gli altri partiti possono sicuramente fare di più e meglio ma l'Italia dei Valori non mi pare sia nelle condizioni per dare lezioni ad alcuno e il Movimento Cinque Stelle farebbe bene a preoccuparsi degli anatemi di Grillo anche contro i suoi stessi "attivisti" prima di sindacare le scelte altrui.

martedì 30 ottobre 2012

Arancioni

L'Assessore D'Alfonso perde sempre buone occasioni per tacere. Avrebbe dovuto riflettere quando ad Ambrosoli hanno detto che era stato candidato dal movimento Milano Civica e ha risposto "non so chi siano". Oggi ci riprova a mettere il cappello su Alessandra Kustermann (forse anche a causa della freddezza espressa dal Pd nei suoi confronti). D'Alfonso non ha capito che la Lombardia non è Milano, che la complessità e la diversificazione che c'è tra le varie province e le culture del territorio non corrispondono per niente al capoluogo. 
Per fortuna che Pisapia rilascia dichiarazioni più intelligenti sul tema delle regionali...

domenica 28 ottobre 2012

Expo 2015: dai Navigli una nuova idea di città

Venerdì 26 ottobre, nella Sala Alessi di Palazzo Marino a Milano, si è svolto l’incontro a cura del Partito Democratico della Zona 6 sul tema “Expo 2015: dai Navigli una nuova idea di città. Il distretto dell’economia sostenibile”, a cui sono intervenuti gli assessori del Comune di Milano, esperti e consulenti del settore e esponenti del Pd.
Tra gli interventi rilevanti che si sono susseguiti nel corso della serata, da segnalare quello di Giovanni Ucciero del coordinamento del Tavolo Pd “Navigli, Darsena, Via d’Acqua”, che ha presentato – con tanto di slide in cui si mostravano i vari progetti e percorsi – le proposte che il Partito Democratico ha per quelle aree, in termini di riqualificazione ambientale, imprenditoriale e culturale.
Ucciero, nel suo intervento, ha esordito affermando che oggi non ha più senso la contrapposizione tra “bellezza” e “sviluppo” ma, anzi, che la “bellezza” è da considerarsi un valore da incorporare nei servizi.
«Il naviglio è un’area vasta che collega il centro della città con la periferia», ha ricordato Ucciero, segnalando che «in quei territori, oggi, vi sono dei luoghi molto diversi tra loro, alcuni degradati da riqualificare, altri molto innovativi, altri ancora “in cerca d’autore” e poi vi operano molte realtà come, ad esempio, le associazioni sportive o le imprese culturali». Si tratta, insomma, di luoghi attraversati da grandi flussi e grandi problematiche ma che hanno delle enormi potenzialità e, in questo contesto, cade Expo 2015 e avrà un forte impatto su quelle aree.
Expo, secondo Ucciero, è un “acceleratore” dei processi in corso e “sostenibilità” deve essere la parola chiave attorno a cui realizzare investimenti e progetti. Il ruolo della politica, in questo contesto, secondo Ucciero, è quello di dare un indirizzo, di far dialogare i diversi soggetti e orientare i processi in corso. Punto di partenza, per Ucciero, deve essere il riconoscimento del valore della bellezza e fare in modo che sia essa a produrre servizi. In questo senso va orientato il programma di sviluppo urbano, facendo in modo che sia capace di attrarre le imprese (in quei territori già operano il settore della moda, del design, del benessere e del food). Altra cosa fondamentale, per Ucciero, è il fato che occorre cercare di rendere un po’ più omogenei i territori, quindi, andare a realizzare infrastrutture dove servono e riqualificare le aree degradate.
Considerata anche la natura delle aree in oggetto, Ucciero ha segnalato la necessità di «favorire la relazione tra tessuto agricolo e metropolitano», in quanto questo territorio «potrebbe diventare il prototipo della smart cities milanese».
Ucciero ha ricordato la grande domanda di spazi che si verifica oggi da parte di associazioni culturali, sociali o imprese giovanili e di come in questi luoghi vi siano spazi disponibili e ancora non utilizzati, per cui sarebbe opportuno fare incontrare domande e offerte.
Tema da cui, però, dipendono molte cose è quello delle risorse ed è chiaro, secondo Ucciero, che oggi occorre incentivare i meccanismi di partenariato tra pubblico (che può mettere a disposizione luoghi e spazi) e privato (che può mettere a disposizione capitale e creatività) e anche il sociale e il tutto deve avvenire in un contesto di area metropolitana (in queste aree sono presenti molte cascine e parchi). Per cui, il tema non può essere che quello dello sviluppo imprenditoriale sostenibile.

Altro importante intervento è stato quello di Ada De Cesaris, Assessore all’Urbanistica del Comune di Milano che ha illustrato le novità del piano di governo del territorio riguardanti l’area dei navigli e di come si potrebbero andare ad integrare anche con il progetto del Pd.
«Oggi, è già stato avviato il piano di riqualificazione della Darsena, è partito un percorso per quanti riguarda il territorio dei navigli che, però, può ancora essere implementato», ha sottolineato l’assessore, segnalando però che la difficoltà vera è quella di conciliare le esigenze della riqualificazione delle aree con quelle economiche, data la scarsità di fondi pubblici a disposizione.

Pierfrancesco Maran, Assessore alla Mobilità, Ambiente, Arredo Urbano del Comune di Milano, ha ricordato che «quello sui navigli non è un intervento idraulico accompagnato dall’aggiunta di qualche pista ciclabile ma è in corso una grande trasformazione e gli investimenti che si stanno facendo vanno ad inserirsi in un tessuto sociale esistente». L’obiettivo, secondo l’assessore è quello di «far diventare queste aree essenziali e caratterizzanti della città di Milano al pari del centro storico», al fine di una più equa distribuzione della città e della costruzione, quindi, di una città policentrica. Il naviglio, in particolare, ha ricordato Maran, ha molti punti in comune con altre città europee e da queste si possono trarre esperienze utili anche per la riqualificazione di Milano.
Sul tema delle risorse, Maran ha affermato che i 40 milioni di euro stanziati dal Comune di Milano devono essere un investimento partecipato e vissuto sul territorio, non un qualcosa di calato dall’alto.

Gabriele Rabaiotti, Presidente del Consiglio di Zona 6 del Comune di Milano, ha esordito ricordando le cose fatte: «l’isola pedonale dei navigli è la più grande di Milano, si sta chiudendo un accordo con le ferrovie che non riguarderà solo Porta Genova e ci sono molti altri progetti già avviati». Poi Rabaiotti si è concentrato sul tema delle risorse: «serve costruire un rapporto tra il pubblico e il privato ma per farlo è necessario che il pubblico sia in grado di riconquistare la fiducia del privato, a tutti i livelli e deve comunque essere un rapporto di sollecitazione, di spinta in avanti». Per il Presidente del Consiglio di Zona 6 è fondamentale riuscire ad intercettare il contesto in cui si deve operare e su questo progetto «si gioca la capacità di mettere in campo un’immagine in grado di attrarre la città con qualcosa di originale: quella dei navigli può essere l’immagine di una “città leggera” che si dilata e ritrova degli spazi, con infrastrutture dolci e una mobilità alternativa». Su questo territorio, inoltre, secondo Rabaiotti, occorre ragionare in un rapporto con la città metropolitana ma anche con una dimensione internazionale, in quanto, sono luoghi in cui coesistono molte culture e si parlano molte lingue.
Per Rabaiotti i 40 milioni di euro stanziati dal Comune, tuttavia, devono riuscire a mobilitare almeno altrettante risorse da parte dei privati perché non possono essere regalati.
«Il Partito Democratico – ha affermato Rabaiotti, in conclusione del suo discorso – si è dimostrato l’unico valido interlocutore sul tema dei navigli e del destino di queste aree».

Un altro interessante intervento è stato quello di Franco Mirabelli, Consigliere Regionale della Lombardia, (video del suo intervento), il quale, in apertura del suo discorso ha ricordato che «la politica recupera credibilità se riesce a fare il suo dovere. Il compito della politica in una realtà come questa, ad esempio, è quello di governare il territorio costruendo un’idea di città. Questo vuol dire pensare al futuro, vuol dire pensare a quale vocazione vogliamo dare ai territori da tutti i punti di vista e, quindi, come riusciamo a definire una vocazione anche economica dei diversi territori valorizzandone le risorse e le qualità».
Sulla vicenda di Expo, Mirabelli ha denunciato il fatto che troppo spesso «il Partito Democratico si è incartato sulla questione del cosa resterà dopo, considerando come il lascito di Expo la discussione sul che cosa ci sarà sul sito dopo l’esposizione internazionale, mentre, il tema vero è quello che viene posto qui oggi e cioè che cosa lascerà Expo in termini di investimenti sulle infrastrutture, sulle metropolitane, sulla Darsena. Il tema è come si rilanciano, come si costruisce e come si promuove lo sviluppo sostenibile e si pensa al futuro della città a partire da tutto questo».
Pensare ad Expo soltanto come ad un’occasione che ci mobilita per tanti anni, mobilita milioni di risorse e poi, il giorno dopo, lascia il sito da stimare e su cui realizzare qualcosa per evitare di perdere i soldi, secondo l’esponente del Pd, non va bene: «Il lascito di Expo è costruire un distretto sui navigli con le caratteristiche che sono state illustrate prima o costruire al Parco Sud un punto di eccellenza rispetto alle produzioni alimentari e, magari, rispetto alla ricerca sulle questioni ambientali. Questo è il lascito di Expo perché così si lasciano anche i punti su cui si può ricostruire l’economia, su cui si possono creare posti di lavoro, anche dopo Expo». Il punto è che, quindi, per Mirabelli, occorre non guardare indietro ma guardare avanti: «parliamo, dunque, di innovazione, parliamo di settori su cui possiamo competere, su cui possiamo rilanciare l’economia di questa città», ha rilanciato il consigliere, affermando che «questa è la dimensione su cui bisogna lavorare e questo progetto ragiona in questo senso: ragiona su uno sviluppo sostenibile vero, traduce lo sviluppo sostenibile concretamente, che vuol dire valorizzare le idee e le bellezze, raccontare l’inizio di quell’area ma pensiamo al futuro e non solo in termini di agricoltura e di commercio ma pensiamo anche in termini di possibilità di industrie (una parte si ha già intorno a via Tortona - e non sono le grandi fabbriche - quindi si può costruire anche questo dentro ad un sistema bello)».
Mirabelli ha chiarito che si tratta di un progetto complicato, difficile da costruire e richiede tanti interventi molto complessi e ha invitato, così, a ragionare su tre aspetti. Il primo è «la dimensione: non penso che un progetto come questo, che guarda al distretto, si possa pensare stando dentro ai confini della città di Milano», ha affermato Mirabelli, segnalando che si tratta di uno dei primi progetti su cui si sostanzia l’idea di città metropolitana, perché «ha la capacità di coinvolgere anche tutto ciò che c’è sul corso del naviglio. E ci sono, in alcune realtà, esperienze già avviate (ad esempio nel campo della cultura) che possono essere messe bene in rilievo. La dimensione su cui ragionare, dunque, quando discutiamo sulla governance, credo che debba essere quella di città metropolitana e, oggi, quindi, ci debba essere il coinvolgimento dei comuni attorno a Milano».
La seconda questione - secondo Mirabelli - è «quali strumenti abbiamo che possono essere messi in campo». «In Regione Lombardia – ha segnalato il consigliere – c’è un piano d’area sui navigli che, però, riguarda solo l’aspetto urbanistico e credo che il centrosinistra, anche in previsione della prossima campagna elettorale delle regionali, dovrà mettere in campo una proposta di piano d’area che non coinvolga soltanto l’aspetto urbanistico ma che metta attorno a un tavolo tutti i soggetti che possono contribuire a dar vita a questo progetto».
L’ultima questione evidenziata da Mirabelli riguarda le risorse. «Il tema - ha affermato Mirabelli - è come investiamo i 40 milioni di euro e come facciamo in modo che ci siano dei privati che ne mettano altri. Dobbiamo comprendere che probabilmente il pubblico dovrà metterci altro, almeno in termini di incentivi perché, se dobbiamo costruire un distretto economico, dobbiamo incentivare anche le aziende e i privati a insediarsi in quel distretto».
In chiusura del suo intervento, Mirabelli ha ribadito la necessità di guardare alle esperienze che ci sono fuori dai confini di Milano e che vanno messe in rete da subito, «coinvolgendo nella costruzione di questo progetto i sindaci di quest’area dei navigli, che oltretutto sono di centrosinistra».

venerdì 26 ottobre 2012

Il presidente che cinguetta

C'è qualcosa di assurdo in quello che sta avvenendo in Regione Lombardia. Formigoni, con tutti gli scandali che lo hanno riguardato in questi mesi, non si dimette ma invita i consiglieri (che hanno fatto il loro lavoro) a rassegnare le dimissioni per far sciogliere il Consiglio e tornare al voto. E' un mondo alla rovescia quello in cui chi ha fatto il proprio dovere si deve dimettere e chi ha sbagliato no. Come se non bastasse, mentre è in corso il Consiglio, Formigoni sta su twitter a ironizzare sul fatto che i consiglieri, parlando in aula, "perdono tempo" mentre invece dovrebbero far presto ad andare a dimettersi! La verità è che l'unico che davvero dovrebbe dimettersi per tutto ciò che è successo è proprio Formigoni e, se non vuole perdere altro tempo, anziché stare su twitter a giocare, dovrebbe farlo subito.

giovedì 25 ottobre 2012

La Ministra choosy

Sul Corriere di ieri hanno pubblicato la lettera di questa ragazza che racconta bene quella che è un po' l'esperienza di tutti (altro che "choosy")>>.
L'aspetto positivo di questa ragazza è che è ancora piena di energia e di resistenza, ma dopo un po' che inciampi, quando perdi un posto e ne devi cercare un altro e poi un altro ancora, tutta la buona volontà e la resistenza che avevi all'inizio non ce le hai più. La crisi ha trasformato molti ambienti lavorativi in un campo di battaglia dove si lotta - sempre più separati (perché non sempre c'è posto per tutti) - per la sopravvivenza. Questa è la realtà quotidiana che evidentemente una ministra choosy non ha presente.

mercoledì 24 ottobre 2012

I candidati alla Regione Lombardia

In questi giorni si fa un gran parlare dei possibili candidati alla presidenza della Regione Lombardia per il centrosinistra. Dopo il no ufficiale di Umberto Ambrosoli, i giornali stanno setacciando tutte le possibili (e a volte anche impossibili) alternative. Si è partiti dai nomi già in campo di Giulio Cavalli, Pippo Civati e Kustermann, fino a Bruno Tabacci (ormai autocandidatosi a qualunque cosa) e si è arrivati a tirar fuori dal cilindro il nome di Fabio Pizzul, giornalista e noto conduttore radiofonico, di area cattolica, attualmente consigliere regionale, eletto con tantissimi voti (cosa non da poco). La discussione principale intorno alle candidature è quella inerente il consenso dei possibili candidati: si tratta, infatti, di trovarne uno capace di ottenere un consenso ampio, non solo a sinistra ma anche al centro dato che l'elettorato lombardo ha votato per anni il centrodestra.  Sembra, infatti, che il solo problema (almeno per i giornalisti che scrivono e commentano quanto avviene) sia quello di avere un candidato in grado di ottenere i voti sufficienti per vincere le elezioni. Sicuramente il problema esiste dati i precedenti esiti elettorali in Lombardia, però, la discussione da fare è un po' più complessa. Ci sono soggetti che sono sicuramente in grado di ottenere un largo consenso per la loro storia personale, perché sono nomi importanti, perché hanno svolto attività che li hanno resi noti al pubblico, ma il punto vero - a parte la simpatia personale che uno può saper suscitare o meno - è per fare cosa si candida e con quale programma? Quello che si andrà ad eleggere in Lombardia è un presidente che dovrà governare una Regione grande, con territori complessi, aziende, infrastrutture... Insomma, al di là del nome noto o di richiamo, serve anche una persona che abbia reali capacità di governare e che lo faccia con un programma chiaro e condiviso con una squadra coesa. Siamo sicuri che tutte le persone  più o meno note che stanno venendo fuori in questi giorni siano portatori di queste qualità e abbiano una reale esperienza che li renda competenti in materia? Personalmente, su molti di loro ho dei seri dubbi. Molti dei nomi tirati fuori sono soggetti che si muovono in solitaria, che hanno anche delle idee brillanti per certi aspetti ma che non sono quasi mai in grado di lavorare in squadra: spesso agiscono soli con dei supporter dietro... si vedano, ad esempio, le trovate comunicative di Civati o le nobili battaglie di Cavalli: belle, interessanti, a volte, utili, ma rigorosamente singole. E' pericoloso candidare un soggetto che agisce da solo e seguendo esclusivamente le idee che gli passano per la testa, senza che prima le abbia confrontate con altri. E' sbagliato votare qualcuno solo perché è più famoso di altri delegando alla sua notorietà (magari ottenuta per altre qualifiche ben diverse dalla capacità politica) anche la possibilità di compiere scelte strategiche decisive che andranno ad incidere sulla vita reale dei cittadini. Ad esempio, qualcuno dei sostenitori di Pizzul ha mai letto o ascoltato i suoi interventi in Consiglio Regionale e si è mai accorto di che collocazione politica hanno e, se sì, la condividono davvero o si fidano solo per il cognome che porta senza entrare nel merito delle questioni? La persona che dovrà essere eletta dovrà essere in grado di rappresentare tutti i cittadini lombardi e non solo se stessa e la rappresentanza non è esclusivamente legata al voto ma anche al cosa saprà fare dopo (si veda quanti milanesi hanno votato Pisapia perché non volevano più vedere Letizia Moratti e ne hanno in parte condiviso l'impostazione iniziale e quanti oggi dicono di riconoscersi nella politiche intraprese dal Comune di Milano da lui guidato...). Al di là di ciò che scrivono i giornali, dei candidati dalla stampa e degli autoproposti o di quelli che sognano la chiamata, si apra una vera discussione sulle idee e si cerchi chi meglio le può rappresentare per esperienza, capacità e impostazione personale perché i consensi raccolti per vincere bisogna anche saperli mantenere.  

domenica 14 ottobre 2012

Il regalo di compleanno di Veltroni al Pd

In tempi di richiesta di rinnovamento o rottamazione da una parte e di profondo attaccamento alla poltrona dall'altra, uno che si fa da parte da solo senza aspettare che glielo dicano compie sicuramente un bel gesto. Resta che Veltroni che annuncia la sua non candidatura il giorno dell'avvio della campagna per le primarie di Bersani e del compleanno del Pd è sospetto, soprattutto se si considera la sua posizione rispetto all'agenda-Bersani...

sabato 13 ottobre 2012

Gli accordi di Formigoni

Roberto Formigoni rilancia su twitter le dichiarazioni rilasciate da Saint Vincent: ‏"Mandare in crisi la Lombardia in questo difficile momento economico e' del tutto sbagliato" e "Come riconosce lo stesso Maroni giovedì non abbiamo mai parlato di fine della legislatura. Parlarne oggi e' tentare di cambiare l'accordo".
Parole che suonano come surreali dopo aver letto ciò che avvenuto negli ultimi mesi in Regione Lombardia che si sono conclusi con l'inquietante episodio di un assessore arrestato per voto di scambio con la 'ndrangheta. Cosa vuol dire che è sbagliato mandare in crisi la Lombardia in questo difficile momento economico? E lasciare il sospetto che il governo della Regione sia stato oggetto di infiltrazioni mafiose non lo è? Cosa può garantire Formigoni di fronte a questo scenario di assessori o ex assessori indagati o arrestati per reati gravissimi? Dalla dichiarazione successiva viene da chiedersi se Formigoni ci sia o ci faccia: come si fa, con quadro simile, ad andare dai giornalisti a parlare di un accordo tra capi di partito. In Lombardia c'era un assessore eletto con voti della 'ndrangheta, altri arrestati e indagati per casi di corruzione e il Presidente della Regione pensa all'accordo con i partiti della sua maggioranza per mantenere la poltrona! L'accordo Formigoni lo doveva fare con i cittadini lombardi per garantire una Regione pulita, trasparente e invece ha favorito l'illegalità. Se ne deve andare subito!

venerdì 5 ottobre 2012

Il doppio turno

A leggere i giornali si capisce che le primarie del Pd sembrano essersi trasformate in una gran pagliacciata (merito sia dei dirigenti del Partito Democratico che di tanti giornalisti e commentatori). 
Della gestione pessima della questione delle regole, ne ho già accennato, ma oggi sembra esplodere il problema del doppio turno e vale la pena di approfondirlo.
Il doppio turno di coalizione è una assurdità colossale. Di doppio turno si era parlato per scremare le candidature interne al Pd ed evitare il ripetersi di nuovi casi Milano e Genova, dove i voti Pd si sono cannibalizzati a vicenda e ha vinto un candidato esterno. E' chiaro che con uno scontro interno Renzi-Bersani così acceso è pericoloso una votazione per scegliere prima il candidato di partito che poi dovrà confrontarsi con gli altri della coalizione, perché tutte le tifoserie finirebbero per esasperare la competizione. Ma andare a due turni sulla coalizione è totalmente privo di senso. E poco importa se una legittimazione popolare del 30% al primo turno si trasforma in 50-60% al secondo perché il numero dei votanti complessivo potrebbe restare uguale, semplicemente ci sarebbe chi si sposta su un candidato piuttosto che su un altro. Caso mail rischio è che a votare vengano meno persone, perché sempre meno interessate da votazioni continue. E se i due candidati che arrivano al secondo turno fossero due del Pd, a un elettore SEL o di centro cosa mai potrà interessare di venire a votare per una sfida che, nuovamente, sembrerebbe interna (perché nuovamente le tifoserie finirebbero per riaccendersi)?

sabato 29 settembre 2012

Le regole delle primarie

In questi giorni si fa un gran parlare di Primarie (del Pd o del centrosinistra) e di regole sulla partecipazione. Una discussione importante perché va a toccare alcuni nervi ancora scoperti delle consultazioni organizzate dal Pd ma che sembra essere terribilmente autoreferenziale, soprattutto di fronte alle tante problematiche che la crisi sta facendo emergere in Italia.
Non è una bella immagine da offrire all’opinione pubblica quella che vede il maggior partito politico del panorama italiano (che fino ad ora sembra avere retto abbastanza in quadro di degrado assoluto della politica e di una buona parte della classe dirigente operante nelle istituzioni) impelagato in una lite continua tutta interna su questioni che nulla hanno a che vedere con il come il Pd si candida a cercare di risollevare il Paese dalla crisi e a cercare di risolvere i problemi che questa ha comportato per gli italiani. Gli italiani hanno altri problemi, un po’ più consistenti delle regole sulle primarie e dello scontro – seppur divertente e appassionante – tra le tifoserie di Renzi e Bersani.

Tuttavia, il problema della gestione delle primarie e delle regole di partecipazione esiste da tempo anche se, fino ad ora, è stato ben scarso l’impegno dei dirigenti per mettervi mano.
Personalmente, ritengo che delle regole siano necessarie, in particolare per stabilire chi debbano essere i candidati alla competizione: non esiste che chiunque arrivi e si candidi come gli pare. A Milano, per la scelta del sindaco, si sono fatte primarie di coalizione senza che neanche fosse stata stabilita prima la coazione. Sempre a Milano si è candidato un soggetto (Sacerdoti) che non apparteneva ad alcun partito della presunta coalizione e che non ha nemmeno ricevuto il sostegno (ufficiale o ufficioso) di alcuno di essi. È chiaro che così facendo, chiunque si può presentare alle primarie del centrosinistra, anche solo come “guastatore”. Il recinto entro cui ci si muove andrebbe stabilito prima della presentazione delle candidature (con la coalizione, nel caso di primarie di coalizione o con regolamenti interni, nel caso di primarie di partito).
Diverso è il discorso per le regole che riguardano la partecipazione degli elettori. Personalmente, sugli elettori ci andrei più piano: le primarie non fanno parte della cultura politica italiana ma solo del centrosinistra (a destra non le hanno mai avute). Ai nostri gazebo si sono presentati sempre e solo i militanti, gli iscritti e le persone “di sinistra”. Non ci sono mai stati “infiltrati di destra” che tentavano di inquinare il voto. Caso mai ci sono dei casi di corruzione o altro (si vedano i cinesi in coda a Napoli pagati da qualcuno per votare, gli stranieri in coda a Roma ai tempi di Veltroni).
Fare registri preventivi di elettori è sintomo di chiusura e, come scrive Ivan Scalfarotto (per cui non ho mai avuto simpatie ma che qui condivido) in un articolo su L’Unità, "se lo scopo delle primarie è allargare quanto più possibile la nostra base di consenso in questo particolare momento storico e vincere, come io credo, bisogna allora favorire la più ampia partecipazione". Oggi, infatti, c'è un elettorato mobile, è difficile ipotizzare la fedeltà di un elettore ad uno schieramento: i “delusi dal centrodestra” non sanno ancora se rivoteranno di là, se guarderanno a Grillo, se non voteranno o se si rivolgeranno al Pd. Personalmente ritengo che siano elettori come gli altri e non “infiltrati”: sono persone in cerca di una risposta alla loro domanda politica. “Infiltrati” sono esponenti del centrodestra, persone che hanno incarichi istituzionali o di partito, persone che si sa perfettamente che stanno nell’altra metà del campo. “Infiltrati” sono anche i corrotti, pagati per “infiltrarsi”, ma per bloccare questo fenomeno ci vuole qualcosa di un po’ più consistente di un registro (pubblico o riservato che sia).
I dati dicono che le primarie del centrosinistra hanno anche avuto partecipazione decrescente negli ultimi anni (si è votato in quelle per i sindaci). Il rischio è che, paventando ulteriori chiusure e complicazioni, i cittadini siano ancora meno interessati a partecipare. Insomma, se dobbiamo chiudere, finiamola lì con le primarie: decidiamo che gli iscritti al Pd si scelgano il proprio candidato e con quello si vada dagli elettori. Perché, comunque, a forza di chiudere, a votare si ritroveranno solo gli iscritti ai partiti di riferimento. Ma siamo sicuri che il parere degli iscritti (in questo caso tutti schiacciati, anche giustamente, su Bersani) coincida con quello degli elettori? La domanda di fondo dello Statuto del Pd di Veltroni e della logica delle primarie era questa. La domanda è sicuramente rimasta inevasa comunque, perché a votare alle primarie sono stati sempre e solo gli iscritti al Pd (o ai partiti precedenti) e la parte più “a sinistra” dell'elettorato. Milano, Cagliari, Genova sono primarie che il Pd ha perso perché si presentato con due o più candidati e gli elettori “di sinistra” (anche tra quelli del Pd) hanno scelto un candidato non sostenuto dal partito (di solito il più “a sinistra”), e non perché ci fossero “infiltrati di destra” ad inquinare l’esito della consultazione.

Siccome, però, il problema delle regole, al di là della consultazione attuale, permane; ben vengano le regole ma si stia attenti a farlo adesso perché potrebbero essere strumentalizzate da chi dice che “il Pd non vuol far vincere Renzi” o che “il Pd si chiude”. Le regole vanno fatte in tempi non sospetti: quando il gioco è cominciato non si possono cambiare le regole a piacimento dei giocatori. In questo senso, l'assemblea del 6 ottobre è tardiva e rischia di mettere una pezza peggiore del buco sulla questione delle primarie. Si cerchino, quindi, soluzioni il più possibile condivise, non ci si arrocchi, non ci si blindi e si pensi a qualcosa di utile anche per le consultazioni future perché non si può aspettare di essere a ridosso della competizione, con candidati già in corsa e sondaggi già diffusi sui tipi di elettorato che raccolgono per stabilire come partecipare ai giochi. E, soprattutto, ci si ricordi qual è il vero scopo delle primarie concepite dal Pd: favorire la partecipazione, coinvolgere i potenziali elettori e farli partecipare alla scelta del candidato che dovrà rappresentarli. Se non servono a questo e se si inibisce la partecipazione, le primarie diventano uno strumento inutile, in quanto esse, troppo spesso, non sono affatto buone nel selezionare una valida classe dirigente (chi vince difficilmente è il più bravo ma è sicuramente chi comunica meglio e si impone di più all’opinione pubblica o chi ha una netta connotazione politica) e, allora, tanto vale cambiare strumento o ripensarlo adeguatamente per altri scopi.

giovedì 13 settembre 2012

Un'Opa sul Pd

Mi stupisce la scelta di Repubblica di dare così enfasi al nulla. Tempo fa, in un articolo di Concita De Gregorio, si accennava a Laura Puppato. Il suo nome è molto noto in Veneto ma nel resto d'Italia quasi nessuno la conosce. La Puppato si è distinta per la scelta di alcune battaglie ambientaliste più vicine alla linea della sinistra che non a quella ufficiale del Pd. Oggi addirittura l'hanno lanciata come possibile candidata alle primarie (che dovrebbero essere per la scelta del candidato della presunta coalizione alla Presidenza del Consiglio). Tutto si può dire della Puppato tranne che sia una via di mezzo tra Bersani e Renzi, caso mai è una via di mezzo tra Bersani e Vendola. Qual è lo scopo di questo spot realizzato da Repubblica (e già rilanciato da Libertà e Giustizia)?

giovedì 6 settembre 2012

Dalla partecipazione alla sostituzione

Ad ascoltare i discorsi della gente comune sulla politica ultimamente c'è da rabbrividire. La richiesta di partecipazione è degenerata in voglia di sostituzione. Le mancanze della politica si sono accompagnate ad un progressivo inferocimento delle persone comuni. C'è qualcosa di distorto e di inquietante nell'idea del "andate a casa tutti che tanto non siete capaci e ci pensiamo noi": c'è un retaggio di cultura berlusconiana, dell'idea che conta il fare (poco importa come e perché), c'è anche una totale noncuranza del fatto che per dirigere un comune, una regione o uno Stato servano visione, competenza, capacita' di mediazione oltre che di amministrazione (cose che sicuramente anche oggi non sempre ci sono ma che comunque non si improvvisano). Le svolte che si stanno prendendo lasciano inquieti.

mercoledì 5 settembre 2012

Pd: la guerra interna continua

Da un po’ di tempo a questa parte, le pagine dei grandi quotidiani sono piene di articoli riguardanti il dibattito interno al Partito Democratico.
Dibattito, spesso dai toni piuttosto accesi, che è innescato in prevalenza per questioni generazionali (di “rinnovamento” o “rottamazione”).
L’ufficializzazione della candidatura di Matteo Renzi alle primarie (quali? Al momento non risulta alcuna data stabilita) ha ridato fiato alle mai sopite polemiche tra la vecchia guardia del partito e il nuovo che vorrebbe avanzare ma, non riuscendoci, urla.
Nulla di nuovo sotto il sole, dunque, se non che, questa mattina, ad aprire i giornali e a leggere le pagine riguardanti il Partito Democratico, c’era da mettersi le mani nei capelli. Su tutte le testate campeggiano le battute al veleno che si rimbalzano Renzi e i suoi avversari di partito dai vari dibattiti alle Feste Democratiche: se prima lo scontro era Renzi-Bersani, negli ultimi giorni è diventato Renzi-Orfini, Renzi-D’Alema (il quale ha definito il sindaco di Firenze “inadatto” a governare, con il rischio di fargli un grande favore in termini di accaparramento del consenso), Renzi-Bindi (quest’ultima ha invocato l’intervento del segretario per ripristinare il rispetto… cosa seria ma che al giorno d’oggi, detta così poi, fa scappare da ridere).
La litania di Renzi è sempre la stessa: tutti i big del Pd, considerato che hanno già oltrepassato i 15 anni in Parlamento e alcuni sono anche stati membri dei due governi Prodi finiti male, devono andare a casa, farsi da parte perché hanno già fatto abbastanza.
Una litania che, però, non è ripetuta solo dal sindaco rottamatore: al congresso del 2009 era l’area di Franceschini a invocare con più forza il rinnovamento, poi quella richiesta si è sopita, è stata portata avanti prevalentemente da Debora Serracchiani (per lo più perché le pongono domande sul tema, come è accaduto di recente a Sky, in cui avrebbe dichiarato “D'Alema? Se non sbaglio ha perso. All'estero, di solito, chi perde si ritira o fa un passo indietro”) e ultimamente si sono aggiunti i “Giovani turchi” (che, però, intendono rimuovere i vecchi nella speranza di andare poi a ricoprirne gli incarichi).
Il quadro della situazione, decisamente degenerata, lo ha dato questa mattina un articolo di Repubblica, in cui si lascia intendere una battaglia generazionale di tutti contro tutti. Difficile negare la situazione perché, al di là delle buone intenzioni di Bersani lanciate prima delle vacanze con la Carta degli Intenti e il tentativo di dialogare anche all’interno delle Feste Democratiche con i vari attori e le varie forze in campo per “rifare l’Italia”, troppo spesso ciò che finisce all’esterno dei dibattiti svolti sono le battute e le stoccate dei vari esponenti democratici rivolte all’interno. Tuttavia, colpisce che ci sia stato bisogno di vedere una rappresentazione del Pd così brutta come quella apparsa oggi su tutti i giornali perché i vari esponenti prendessero atto di quale immagine del partito stavano trasmettendo all’esterno (sempre che tutti ne abbiano davvero preso atto). E così il segretario è stato costretto a intervenire per porre fine alla querelle (in particolare sulla questione della presunta spartizione di posti in caso di vittoria elettorale) ma a parlare è stata anche Marina Sereni che ha segnalato: “Vedo rappresentato sui media un dibattito che ruota tutto sui destini personali di questo o quel dirigente. Tutte le aspirazioni personali sono legittime, c’è una domanda giusta di rinnovamento della politica e delle classi dirigenti che il Pd deve saper raccogliere ma non possiamo trasformare le primarie nel centrosinistra in una lotta senza regole e senza contenuti. Non possiamo prestare il fianco e favorire il disegno di quanti forse vorrebbero impedire al Pd e alle forze progressiste di guidare una stagione di innovazione e di crescita”; che tradotto significa: datevi una regolata quando parlate all’esterno.
Staremo a vedere nei prossimi giorni se il messaggio intelligente della Sereni sarà colto o se i vari esponenti democratici continueranno a farsi guerra tra loro.
Resta, però, il problema vero del rinnovamento che, in questa lotta di posizionamenti, rischia di finire schiacciato e accantonato come se il nome di qualcuno che sostituisce qualcun altro di per sé fosse sufficiente a risolvere la questione.
Il discorso del rinnovamento era, appunto, stato affrontato inizialmente con la campagna congressuale del 2009, poi il tutto si è un po’ ridimensionato e adesso è tornato a esplodere con prepotenza.
Non che la segreteria Bersani si sia dimenticata dei giovani, anzi, li ha inseriti nei gruppi dirigenti, li ha portati avanti, molti sono anche stati eletti nelle istituzioni, solo che poi questi giovani non li vede nessuno perché puntualmente l’immagine e la rappresentanza del Partito Democratico rimangono saldamente ancorate a Bindi, D’Alema, Finocchiaro, Veltroni… e allora c’è un problema perché il rinnovamento invisibile non serve a nessuno.
Gli unici nuovi che si vedono sono i giovani che urlano, quelli in perenne contrasto con il gruppo dirigente. Solo di recente hanno cominciato a fare la voce grossa e, quindi, ad assumere visibilità anche i giovani della segreteria di Bersani (i Giovani turchi, che poi ad ascoltarli bene si capisce che sono tutto tranne che nuovi). Perciò bisogna essere chiari, il rinnovamento non è solo una questione generazionale: ci sono soggetti percepiti come nuovi che giovani non sono (si veda i membri del governo Monti e l’impatto che hanno avuto sull’opinione pubblica rispetto agli eletti in Parlamento dei vari partiti), così come ci sono giovani che sono più vecchi dei vecchi perché cresciuti e formati secondo gli schemi che c’erano una volta. E allora il rinnovamento non è solo una questione di giovani contro anziani, ma è il cercare persone nuove (anche l’immagine conta, difficile spacciare come nuovo qualcuno che si vede in giro da vent’anni e che gli si è visto assumere tutte le posizioni politiche possibili), nel senso che abbiano idee nuove adatte ai tempi nuovi, capaci di presentare progetti e prospettive in linea con le aspettative attuali.
Su questo terreno si gioca la questione del rinnovamento. Questione che è esplosa perché la si è lasciata inaffrontata per troppo tempo e adesso non ci crede più nessuno all’idea che si voglia cambiare davvero e sentir parlare di possibili posti garantiti (che in altri contesti avrebbero una ragione seria e sensata dietro), oggi, fa orrore e diventa un ulteriore elemento di diffidenza dei cittadini e un’arma in più nelle mani di chi dice “rottamiamo tutti perché tanto questi non se ne vanno”.
Legata alla questione del rinnovamento, ve ne sono poi altre due: la prima è quella del presunto fallimento di chi c’era prima e la seconda è quella che riguarda il concetto del nuovo.
Il discorso fatto da Debora Serracchiani a Sky su D'Alema, secondo cui “Se non sbaglio ha perso. All'estero, di solito, chi perde si ritira o fa un passo indietro” è lo stesso identico discorso che ci si poneva al congresso del 2009 nell’allora mozione Franceschini.
Qualcuno obietta che D’Alema, così come gli altri esponenti dei precedenti governi di centrosinistra, non hanno perso nulla, hanno svolto il loro compito egregiamente, poi altri hanno fatto cadere i governi. Discorso opinabile ma poco importa perché il punto è un altro: nella testa degli italiani i due governi Prodi del centrosinistra sono rimasti come due governi caduti e quindi falliti, così come deluse sono state le speranze che vi erano appese, con il risultato che, per la proprietà transitiva, anche chi era un esponente di quei governi ha fallito o comunque ha delle responsabilità in quel fallimento e, la conseguenza, è che chi perde deve andare via (soprattutto nel caso che si sia perso non una volta sola ma ben due, tre e in alcuni casi anche quattro volte). Insomma, i mali della sinistra italiana, per gli italiani, stanno in quella classe dirigente e adesso non la vogliono più rivedere a dirigere nulla.
Se non entra questo nella testa di chi deve rinnovare, non si va molto lontano.
Ovviamente questa è una percezione che i cittadini hanno e non significa che tale percezione corrisponda alla realtà ma o si è talmente bravi da riuscire a ribaltare questa percezione (cosa che fino ad ora non è riuscita per niente) oppure si procede con il rinnovamento e si fa in modo che questo sia visibile, così da mettere a tacere una volta per tutte le voci insistenti su garantismi e simili.
Rinnovare non significa buttare via una storia, non significa cancellare delle persone (anche se qualcuno probabilmente lo meriterebbe), ma significa guadare avanti, fare un bilancio di dove si è arrivati fin qui e delle risorse a disposizione, guardarsi intorno per capire che aria tira e come si può mettere a frutto il patrimonio (di esperienze maturate e di idee) per cercare di elaborare un progetto adeguato alla situazione attuale, collocando le caselle che si hanno nel modo più adatto. Questo è ciò che deve fare il Pd al suo interno. Altrimenti non c’è rinnovamento, c’è solo una sostituzione di una persona con un’altra, la quale probabilmente finirà per volersi attaccare alla poltrona come chi l’ha preceduta e di innovazione se ne vedrà ben poca.
L’altra questione poi riguarda proprio la direzione che il “nuovo dovrebbe prendere, che poi è la vera questione che serpeggia e divide il Pd: per una parte del Pd il nuovo coincide con l’andare verso destra mentre il vecchio è tutto ciò che guarda a sinistra. Questo, ovviamente, genera l’astio profondo da chi la pensa all’opposto. Il vero problema del Pd non è generazionale, ma la questione irrisolta su quale profilo deve assumere il partito, la mancata sintesi tra parte più liberale e quella più di sinistra, che è una divisione molto più profonda di quella tra ex Ds ed ex Margherita perché le due posizioni si sono spinte molto più all’estremo e ad oggi la sintesi continua non vedersi o a vedersi per qualche fugace momento, per poi frantumarsi di nuovo e palesarsi in ogni scontro interno tra i vari esponenti (come dimostrano anche le ultime battute Boccia-Orfini). È questo il primo nodo da risolvere e il segretario la sintesi l’aveva fatta con la Carta degli intenti ma nessuno nel partito ha pensato di mantenerla.
Intanto la guerra interna continua e ogni pretesto è buono per scatenarla.