mercoledì 21 dicembre 2016

Italia e PD: prospettive dopo il referendum

Lunedì sera al Circolo PD di Niguarda a Milano si è discusso di “Italia e PD: prospettive dopo il referendum” . Un incontro aperto al pubblico, non solo agli iscritti, per confrontarsi sullo scenario politico nazionale dopo l’esito referendario che ha visto la vittoria del No alla Riforma Costituzionale, con uno sguardo al Partito Democratico, impegnato in prima linea sia su quel fronte che nel Governo.
Un incontro pensato e costruito, oltre che con lo scopo di riflettere su quanto sta avvenendo, anche per dare un messaggio chiaro ai simpatizzanti del PD sul fatto che, nonostante la sconfitta, si è ancora in piedi.
L’impresa è riuscita. La discussione, interessante, è stata aperta da Enrico Borg, Segretario del Circolo Pd di Niguarda (video dell’intervento), che ha evidenziato l’impegno di quel Circolo a sostegno del Sì al referendum e di come ora sentano il peso della sconfitta netta subita. Una sconfitta, però, che ha tante ragioni e non può essere riconducibile solamente ad alcuni errori comunicativi e tattici che pure ci sono stati - ha segnalato Borg - ma che va inquadrata in un contesto generale, di cui gli ultimi esempi sono la vittoria della Brexit e la vittoria di Trump.
«Da diversi anni, il Partito Democratico si è assunto l’onere e la responsabilità di farsi carico dei problemi del Paese. - ha proseguito Borg, nella sua analisi - Qualche volta abbiamo assunto dei ruoli di responsabilità anche quando, magari, avremmo potuto fare scelte diverse e più appaganti dal punto di vista elettorale. Per il bene del Paese, quindi, sono state fatte diverse scelte, alcune dall’esito più felice e altre meno. Abbiamo concluso un percorso di Governo con il Presidente del Consiglio che è stato il nostro Segretario Renzi, che ha messo in cantiere e realizzato molte opere importanti. Dal nostro punto di vista, quindi, il segno è più che positivo. Purtroppo, molto di questo lavoro non ha dato i frutti sperati. Questo, a mio avviso, è avvenuto perché oggi esistono dei problemi strutturali di natura mondiale che vanno anche al di là delle responsabilità delle singole forze politiche».
Il Segretario del Circolo di Niguarda ha evidenziato anche come da anni sia in corso una crisi che ha colpito in maniera feroce le nostre società e rispetto alla quale è difficile dare delle risposte. «La stessa sinistra - ha sottolineato Borg - è in crisi a livello mondiale: non ha prodotto altre risposte concrete ai problemi che non fossero quelle valide fino al Secolo scorso ma che oggi risultano insufficienti. È difficile anche trovare nuove risposte: siamo di fronte ad un cambiamento epocale dovuto alla globalizzazione che, se da un lato, ha fatto sì che miliardi di persone abbiano visto migliorare le proprie condizioni di vita, dall’altro lato, coloro che prima erano avvantaggiati dallo scambio ineguale a livello mondiale, si sono trovati in crisi e si tratta soprattutto delle classi medie e povere. C’è, quindi, un problema generale di disuguaglianza. Per la prima volta, ad esempio, le future generazioni non hanno davanti una prospettiva rosea o di miglioramento rispetto alla generazione precedente. Oggi, il vento della protesta e del ribellismo soffia comunque contro chiunque governi. La difficoltà sta nel cercare di capire quali sono le ragioni e molte volte sono ragioni reali. La perdita del potere d’acquisto, la perdita del lavoro, la perdita del futuro per molti sono problemi enormi che chiedono risposte che sono difficili da trovare, soprattutto per chi non vuole porsi sulla scia della demagogia. Sappiamo benissimo, infatti, che non esistono risposte facili. Per chi è abituato soltanto ad urlare e dire No, è sicuramente più facile».
Per quanto riguarda, invece, le prospettive per il futuro, Borg ha detto di auspicare che, in seguito alla vittoria del No al referendum, per l’Italia non ci sia un ritorno indietro, all’epoca del proporzionalismo, della deresponsabilizzazione delle forze politiche, della proliferazione di partitini in cui ciascuno si spartisce il suo e poi nessuno è responsabile di niente e, quindi, del via alla spesa pubblica improduttiva.
Mentre sul fronte del PD, il Segretario del Circolo di Niguarda ha affermato: «Credo che sia giusto mantenere quella che era la ragione fondante del nostro partito: siamo nati come partito che doveva unire, includere sensibilità e anime diverse. Questa era la vocazione maggioritaria, non la presunzione di voler fare da soli ma la giusta visione di ciò che stava avvenendo e la necessità di coagulare attorno a sé altri che la pensavano in modo diverso e che avevano storie diverse ma in grado di trovare poi dei momenti di sintesi comune. Credo, quindi, che vadano anche un po’ ridiscusse le regole del gioco perché in un partito penso che un minimo di regole ci debbano essere e anche coloro che dissentono o hanno opinioni diverse, alla fine, debbano allinearsi alle decisioni prese a maggioranza. Questo, purtroppo, non sempre è avvenuto e auspico, invece, che da qui in avanti ci sia un percorso di grande impegno ma anche di grande responsabilità da parte di tutti».
Prima di lasciare spazio a domande o interventi del pubblico, a chiarire ulteriormente il quadro della situazione è stato il senatore Franco Mirabelli (video dell’intervento), il quale ha segnalato che «C’era bisogno di riscrivere un patto tra i cittadini e la politica perché era in crisi la credibilità delle istituzioni ed erano già arrivati molti segnali in tal senso. Paradossalmente, abbiamo perso il referendum proprio per questa ragione, nel senso che credo che uno dei dati che va a comporre il 60% dei No riguarda persone che hanno votato sull’onda di una spinta che non è né di destra né di sinistra ma di protesta anti-istituzionale, molto simile a quella che ha portato alla vittoria di Trump negli Stati Uniti o della Brexit e che temo potrà portare a risultati positivi anche la Le Pen in Francia. Questo perché oggi, di fronte alla crisi e alle diseguaglianze che si sono formate, la risposta è lo scaricare la rabbia contro le istituzioni. Il PD, in questi anni, ha rappresentato le istituzioni e questo ha influito.
Questo non è stato l’unico aspetto ma ha contribuito a caratterizzare il voto».
Mirabelli ha evidenziato come il clima di sfiducia sia stato alimentato ad arte perché per un’intera settimana a ridosso del referendum si è discusso dei possibili brogli sul voto degli italiani all’estero e poi, in sede referendaria, c’è stata la polemica sulle matite copiative.
«Tutto ciò ha alimentato il clima di sfiducia verso le istituzioni per cui chi governa non appare più credibile. – ha affermato il senatore - Inoltre, quello del referendum è stato anche voto molto politico. La spinta anti-istituzionale si è saldata con una critica al Governo che non ha saputo intervenire sulle diseguaglianze. Personalmente, penso che il Governo Renzi abbia fatto moltissime cose e quei mille giorni non vadano dimenticati e dovremo raccontare quanto abbiano inciso sulla vita di tante persone i provvedimenti e le riforme portate avanti. Credo che dovremo anche continuare a raccontare quanto sia importante il fatto che abbiamo cambiato in meglio i dati economici e occupazionali. Il problema è che probabilmente si è creato un cortocircuito tra una voglia di raccontare questa Italia che ripartiva e otteneva risultati e la vita concreta di una parte di questo Paese che non si ritrovava in quel racconto e, anzi, di fronte a quel racconto si arrabbiava e vedeva rappresentate proprio le diseguaglianze che ci sono nella nostra società. Questo è un dato su cui dovremo riflettere nei prossimi mesi».
Mirabelli ha ribadito ancora che, comunque, non tutto si spiega dentro le dinamiche delle tradizionali contrapposizioni tra destra e sinistra e «oggi c’è uno scontro tra forze anti-istituzionali che spingono contro (e non importa se siano più a destra o a sinistra) e forze riformiste, e questo è un tema su cui dovremo riflettere perché recuperare su questo terreno non è semplice. Così come non sarà semplice recuperare credibilità rispetto alla lotta alle diseguaglianze perché i tempi in cui possiamo rispondere ai problemi aperti dalle diseguaglianze ai disoccupati fino alle famiglie che sono sulla soglia di povertà, non sono rapidi».
Il senatore PD ha sottolineato anche che «Avevamo dato per morte alcune forze, invece, i partiti della destra sono ancora capaci di mobilitare le persone in maniera significativa. Lo stesso Silvio Berlusconi, che consideravamo politicamente morto, in realtà ogni volta che parla riesce a mobilitare una parte importante dell’elettorato».
Alla luce di questo quadro uscito dalle urne, Mirabelli ha segnalato che c’è bisogno di un PD che non rinunci a rivendicare i meriti dei tre anni di Governo Renzi, perché sono state fatte cose importanti, e che non abbandoni la scelta di fare riforme, mettendo in discussione privilegi e rendite di posizione, perché l’Italia ne ha bisogno.
In merito ai dubbi sollevati sulla questione della legge elettorale e della data del voto, Mirabelli ha detto che in Assemblea Nazionale, Renzi ha proposto il Mattarellum perché ha in sé ancora un principio maggioritario (mentre tutto il resto del panorama politico spinge verso il sistema proporzionale), sottolineando anche l’importanza dei collegi perché il tema delle preferenze invece è molto problematico (in particolar modo al Sud). «Non rinunciamo al maggioritario e ad alcune battaglie, sapendo, però, che quell’idea di stabilità secondo cui il giorno successivo alle elezioni si sa con certezza chi ha vinto e chi governa ha fatto dei passi indietro. Resta il bicameralismo paritario che, come abbiamo spiegato per tutta la campagna referendaria, dal punto di vista della stabilità dei Governi è un problema», ha spiegato Mirabelli che, in merito a questo aspetto, ha ricordato anche come l’idea del partito a vocazione maggioritaria non possa più essere interpretata come l’autosufficienza e occorrerà fare un ragionamento sulle alleanze.
«In questo senso - ha detto il senatore PD - il “modello Milano” può essere un punto di riferimento anche a livello nazionale».
Impensabile, secondo Mirabelli, l’ipotesi di andare al voto a febbraio, perché occorre attendere almeno l’esito dell’esame dell’Italicum da parte della Consulta e poi vi è la necessità di armonizzare le leggi elettorali di Camera e Senato, nel tentativo di avvicinarci il più possibile all’obiettivo di garantire governabilità e avere una stessa maggioranza in entrambi i rami del Parlamento. Il voto, comunque, secondo il senatore, sarà sicuramente prima dell’estate, anche per raccogliere la sollecitazione arrivata dai cittadini con il No al Referendum Costituzionale.
Mirabelli ha poi affermato che il PD deve tornare al voto senza alcuna paura, in quanto è l’unica forza politica che ha ancora un consenso e un radicamento molto grande.
Il Governo Gentiloni ha, quindi, la funzione di fare la legge elettorale e affrontare i temi dell’oggi (risolvere la crisi bancaria, la ricostruzione post-terremoto, gli impegni internazionali).
Sul fronte del partito, Mirabelli ha segnalato la necessità di «reimmergerci nella società e ricominciare a stare nelle periferie non solo con la presenza (anche perché in molti luoghi ci siamo già) ma anche con la testa. Questa, a mio avviso, è la priorità e viene prima rispetto al fare un congresso che, oltretutto, diventerebbe un regolamento di conti interno, in cui si parlerebbe di noi solo per le liti dell’uno contro l’altro anziché parlare all’Italia della proposta politica per il Paese e i cittadini. Il congresso lo faremo alla naturale scadenza, in ogni caso, ci occuperemo ugualmente anche del partito. Adesso, dunque, dobbiamo fare un ragionamento serio, mettendo al centro il tema delle diseguaglianze che, nonostante gli sforzi fatti in questi anni, si sono allargate (come si stano allargando in tutto il mondo). Dobbiamo, quindi, ritornare a mostrare che la nostra priorità è essere dove ci sono le persone che soffrono le diseguaglianze e cercare di chiudere la forbice tra ricchi e poveri di questo Paese».
L’incontro è poi proseguito con alcune domande da parte del pubblico, curioso di comprendere in particolare la dinamica del rapporto interno al PD tra maggioranza e minoranza e il come organizzarsi in vista del voto.

giovedì 15 dicembre 2016

Renzi ha fretta

“Il Governo Avatar” oppure “Il Governo Fotocopia”: i grillini hanno definito così il nuovo Governo Gentiloni, un governo “avatar di Renzi”, “fotocopia” di quello precedente guidato da Renzi, appunto. La scelta della riconferma di quasi tutta la squadra che lo compone, sembra confermare questa teoria.
Per tutta la scorsa settimana sulle pagine dei giornali si sono rincorse ipotesi e nomi ma la realtà, invece, è stata molto semplice e banale: Renzi vuole andare a votare presto.
Non c’è altro da spiegare. Tutto ciò che si sta vedendo è conseguenza di questa scelta.
Renzi ha promesso che, in caso di sconfitta al referendum, avrebbe lasciato e lo ha fatto ma, non volendo fare anche la figura del perdente, ha cominciato a pensare di voler tornare al voto in fretta per non restare schiacciato dalle urla continue delle forze di opposizione che rivendicano le urne e anche per capitalizzare il “suo” presunto 40% conquistato con i Sì.
Da questo punto Renzi è partito e da questo punto non si è mai mosso.
Nessuna trattativa nel PD per arrivare altrove: altro che i presunti tradimenti di Franceschini e gli accordi. Tutti nel PD sanno che l’unica carta possibile da giocarsi anche per il futuro resta Renzi e, quindi, si sono adeguati. Tutti nel PD sanno che si ottengono risultati migliori se si è uniti e, quindi, perché mai andare contro al Segretario (oltretutto che rivendica una forza del 40% nel Paese) e rompere tutto?
Magari qualcuno ci ha pure provato a dire a Renzi che occorreva agire in modo diverso ma poi deve aver capito che non c’era spazio per altre ipotesi oltre a ciò che Renzi stesso aveva già esplicitato. Lo si è visto anche negli interventi alla Direzione Nazionale. Il PD ha scelto di salvare la faccia di Renzi e poi di salvare la propria unità, convergendo di fatto, su ciò che Renzi aveva deciso.
Il Governo Gentiloni è espressione di questo e serve a questo.
“Gentiloni marionetta di Renzi”, dicono le forze di opposizione, tanto che ne ha mantenuto anche i Ministri, un “Governo Renzi Senza Renzi” scriveva Gramellini su La Stampa e via con commenti analoghi ma è evidente che se la scelta politica di fondo è quella di salvare la faccia di Renzi, tenere unito il PD e andare al voto presto non ci potevano essere altre strade.
E che la scelta di fondo sia proprio quella lo si vede bene anche dalla composizione del nuovo Governo, che sicuramente ricalca quello vecchio: che bisogno c'è, infatti, di mettere persone nuove nei Ministeri, se comunque devono durare poco? Tanto vale lasciare chi c'è già e consentire almeno che si provi a finire ciò che si è iniziato. Restano, tuttavia, alcuni accorgimenti: la Boschi, a dispetto dei commentatori che la volevano fuori in quanto al referendum è stata bocciata la sua riforma, acquista potere e diventa Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e Luca Lotti (altro uomo di Renzi) ha la delega al CIPE (gestisce la distribuzione delle risorse sui vari progetti).
Inoltre, siamo di fronte ad un Governo Elettorale, cioè studiato sulle esigenze della campagna elettorale: nell’analisi del voto del 4 dicembre si è detto che il Sud ha votato No perché scontento del disinteresse per le questioni meridionali e ora arriva un Ministro per il Sud (De Vincenti); nell’analisi del voto è emerso che un gran caos è avvenuto in seguito alla rivolta degli insegnanti scatenata dalla Buona Scuola e allora si è sostituita la Giannini con la Fedeli. Infine, è un governo senza Verdini perché così la sinistra potrà smettere di dire che Renzi va a braccetto con Verdini e poi è un governo a prevalenza netta PD ed è evidente che i voti del PD da soli non sono sufficienti per garantirgli lunga vita, soprattutto al Senato dove i numeri sono sempre traballanti. E Gentiloni stesso lo ha detto: “il Governo non ha scadenza ma dura finché c’è la fiducia” e questa potrebbe venire a mancare molto in fretta.

mercoledì 7 dicembre 2016

Fare politica per qualcosa

Il discorso di Matteo Renzi nella notte della sua sconfitta elettorale è stato molto bello. Nel suo stile, positivo e con il sorriso nonostante la sconfitta, ma dai toni pacati. Fossero stati tutti così i suoi discorsi durante i tanti mesi di campagna elettorale, forse il risultato sarebbe stato un po’ diverso.
«Fare politica andando contro qualcuno è più facile, fare politica per qualcosa è più bello ma più difficile», ha detto Renzi in uno dei passaggi del suo discorso.
È vero: è più facile dire no a tutto, è più facile opporsi a qualunque cosa; è più difficile costruire e cercare di mostrare di aver costruito bene.
Eppure, l’impressione è che uno dei problemi di questo risultato elettorale sia stato proprio il “per qualcosa” che forse non era così chiaro agli occhi degli elettori.

Sul fatto che il referendum costituzionale avesse valenza politica era chiarissimo fin da subito, con Renzi che annunciava “se perdo me ne vado” e il fronte del No che insisteva “votate No per mandare a casa Renzi” ma sul come Renzi volesse cambiare il Paese, invece, c’era molta confusione.
Renzi e i suoi ce l’hanno messa tutta per semplificare il messaggio (anche troppo a volte) ma la realtà è che cambiare la Costituzione di un Paese non è mai cosa semplice e richiede sempre qualche sforzo di chiarimento in più che forse è mancato.
Lo si capiva dal caos di argomentazioni che circolavano: il fronte del Sì e quello del No diffondevano messaggi contraddittori, che si smentivano l’un l’altro e, in un periodo in cui vale tutto, le “bufale” vengono accreditate anche da mezzi di comunicazione autorevoli e amplificate dai social network e nessuno si cura più di approfondire le tesi, è più complicato spiegare qual è la verità. Così come è complicato cercare di far passare per semplice una riforma che semplice non è, oltretutto nell’anno in cui si è festeggiato il 70esimo anniversario della Repubblica Italiana e ci si avvicina proprio al 70esimo della Costituzione.
La Costituzione, nel bene e nel male, è da sempre un punto di riferimento per gli italiani, anche precedenti referendum in materia hanno fatto una brutta fine.
Bisognava pensarci ma è difficile pensare quando si va a tutta velocità.
Così come, da sempre, quando le persone hanno dei dubbi preferiscono tenere ciò che c’è e che conoscono. La logica dell’azzardo non fa ancora parte della mentalità italiana. Di fronte alla scelta tra uno scenario nuovo ipotetico e non chiaro, di fronte all’idea del “non è una riforma perfetta ma intanto cominciano a cambiare poi magari più avanti miglioreremo” senza spiegare come e quando, si preferisce rimanere come si è perché almeno se ne comprende il meccanismo.
A questo, probabilmente, il fronte del sì sperava di rimediare cercando di spiegare nel merito la riforma proposta e di semplificarla agli occhi dei cittadini. Il messaggio, però, evidentemente, non è arrivato.

Succede. Non è grave. Si può vincere e si può perdere.
Il problema di Renzi è stato, però, l’aver legato indissolubilmente il destino del suo Governo all’esito del Referendum.
Il motivo va ricercato nell’idea che si era diffusa che questa fosse una legislatura nata male e, quindi, destinata a fare le riforme per poi farsi da parte. Un’idea nata in realtà con Enrico Letta che, sostituendo Bersani incapace di trovare i numeri per formare un Governo, probabilmente non si sentiva forte di una legittimazione politica e ha preferito puntare sul fronte istituzionale per sentirsi autorizzato a svolgere il ruolo di Presidente del Consiglio. Una spinta in tal senso è arrivata anche da Giorgio Napolitano, il quale, però, se si va a guardare bene, aveva semplicemente sferzato i politici a fare il proprio dovere e a mettersi a lavorare con impegno e serietà per il bene del Paese, che non voleva necessariamente dire fare una riforma costituzionale. La riforma costituzione è il quadro delle regole e si rende necessario cambiarlo quando non si è in grado di cambiare attraverso l’azione politica.
In Italia c’è sicuramente un problema serio dovuto alla burocrazia, agli sprechi e, quindi, al quadro delle regole, che provoca lentezza e sfiducia ma c’è anche un problema serio di scelte politiche finalizzate a bloccare il Paese per miopi giochi di potere piuttosto che a far funzionare le cose.
La scelta del Governo Renzi, però, non è stata solo quella di agire sulle regole: la riforma costituzionale non è l’unica cosa fatta dal Governo Renzi; lui stesso, nel corso del suo intervento di saluto, ha elencato le tante cose realizzate.
«In questi giorni il governo sarà al lavoro per completare l’iter di una buona legge di Stabilità, che deve essere approvata al Senato e per assicurare il massimo impegno ai territori colpiti dal terremoto. Lasceremo a chi prenderà il nostro posto il prezioso progetto di Casa Italia. […] Lasciamo la guida dell’Italia con un Paese che passato dal -2% al +1% di crescita del Pil, che ha 600mila occupati in più con una legge, quella sul mercato del lavoro, che era attesa da anni, con un export che cresce e un deficit che cala. Lasciamo la guida del Paese con un’Italia che ha finalmente una legge sul terzo settore, sul dopo di noi, sulla cooperazione internazionale, sulla sicurezza stradale, sulle dimissioni in bianche, sull’autismo, sulle unioni civili. Una legge contro lo spreco alimentare, contro il caporalato, contro i reati ambientali. Sono leggi con l’anima, quelle di cui si è parlato di meno ma a cui tengo di più. Lasciamo infine l’Italia con un 2017 in cui saremo protagonisti in Europa a marzo con l’appuntamento di Roma per i sessant’anni dell’Unione. Saremo protagonisti a Taormina a maggio per il G7. Saremo protagonisti con la presidenza de consiglio di sicurezza dell’Onu a novembre. Aver vinto le sfide organizzative dell’Expo e del Giubileo non è merito del governo ma di una struttura straordinaria di professionisti a cui va la mia rinnovata gratitudine», aveva detto Renzi nel suo discorso post-sconfitta.

E allora che bisogno c’era di legare il destino di un Governo che stava lavorando bene su tanti fronti ad un referendum tanto difficile e per di più affrontato praticamente da solo contro tutto il resto delle forze politiche?
Per quale ragione ora che Renzi ha perso una battaglia deve crollare anche tutto il resto?
Renzi, purtroppo, soffriva della sindrome della colpa originaria di esser arrivato a Palazzo Chigi senza esser passato dalle elezioni. La legittimazione enorme ottenuta con il risultato del 40% preso alle Europee non gli bastava più, soprattutto, dopo lo sbandamento alle elezioni amministrative di giugno e forse anche per questo ha spinto così tanto sul personalizzare il referendum costituzionale e sul cercare una legittimazione personale attraverso di esso.
Ma la partita era più complicata e Renzi non solo ha perso ma ha perso male. In giro, non c’era la sensazione di una sconfitta così ampia sul piano nazionale: si poteva ipotizzare al massimo un pareggio o una sconfitta di poco, invece, un risultato così, inevitabilmente fa crollare tutto.

Eppure il risultato è complesso.
Il No è stato un insieme di cose: è stato un No a Renzi in prevalenza (lo ha ammesso lui stesso quando a margine della conferenza stampa ha detto “Non credevo che mi odiassero così tanto”), un No all’azione del Governo (prevalentemente da soggetti che non stanno particolarmente bene e che pensano che la politica abbia colpa di qualunque cosa, magari senza neanche sapere cos’ha davvero fatto il Governo in questi anni), un No alla Riforma Costituzionale (perché “la Costituzione è sacra” dicevano oppure perché “la riforma è fatta male”, perché “si va verso la deriva autoritaria dell’uomo solo al comando” ma anche perché “non ho capito”).
Un No arrivato, quindi, da soggetti diversi, legati gruppi elettorali diversi e fondati su motivazioni diverse ma che ha prodotto una percentuale altissima.
Una percentuale che non è certamente raggiungibile in caso di elezioni politiche perché è evidente che il fronte del No è composto da tanti partiti e movimenti (in prevalenza M5S) spesso distantissimi tra loro ma complessivamente resta una bocciatura del 60% per Renzi, parte del suo operato o la sua riforma o tutte le cose insieme.

Il , invece, arrivato al 40%, è prevalentemente legato ad un elettorato vicino al Partito Democratico o a Renzi. Gli altri partitini uniti nel fronte del Sì in questa battaglia hanno dimostrato di contare poco o nulla.
Non è un dato da poco: arrivare da soli a prendere il 40% è moltissimo. Eppure, anche in questo caso, non è detto che sarebbe confermato in caso di elezioni politiche. Come il No, anche il Sì, infatti, ha motivazioni variegate: per alcuni è stato un Sì incondizionato a Renzi perché “mi fido di lui”, per altri un Sì ad una “riforma utile per cambiare il Paese e rendere le sue regole più snelle”, per altri ancora era semplicemente un Sì perché “se vince il No, crolla tutto ed è assurdo fermare l’azione positiva di questo governo”, a prescindere dal merito della riforma.

In ogni caso, questo era un referendum e un referendum è fatto anche così: ci sono due opzioni, si vince o si perde e il PD di Renzi era da solo contro tutti gli altri e ha perso.
Una sconfitta di queste dimensioni, inoltre, ha un peso enorme e non può essere liquidata con qualche battuta (che è giusto che facciano in pubblico i personaggi con ruoli di rilievo per salvare la faccia ma che non può essere anche replicata da soggetti delle retrovie senza incarichi né meriti a cui invece spetta il dovere di far funzionare il cervello e mettersi a pensare per evitare nuovi disastri in futuro).

A mio avviso un altro grande errore è stata la campagna elettorale (tempi e modalità). In alcune città la campagna referendaria è stata lanciata a maggio (il via ufficiale è stato a Bergamo il 21 maggio) mentre nei luoghi in cui si è votato alle elezioni comunali è partita a luglio, poco dopo i ballottaggi. La campagna referendaria si pensava che sarebbe terminata ad ottobre e invece il referendum si è svolto il 4 dicembre. Quasi sei mesi di campagna elettorale sono troppi e poco importa se nel frattempo ci si occupa anche di altre urgenze perché i mass media si focalizzano su un tema e lo fanno diventare dominante. Uno dei momenti peggiori è stato con il terremoto. Era stonato parlare di referendum mentre il Centro Italia crollava sotto il terremoto e poco importa se il Governo si è occupato molto anche dei terremotati.
La campagna elettorale, inoltre, è stata brutta, con dei toni aggressivi e macabri (usati in prevalenza dai sostenitori del No) e con toni da marketing da televendita (usati in prevalenza dai sostenitori del Sì, istruiti con dei format non proprio utili a sembrare naturali).
L’idea di vendere la riforma costituzionale come se fosse un prodotto qualsiasi messa in pratica degli strateghi della comunicazione della campagna del Sì è stata abbastanza penosa.
Il format che pervade il mondo renziano è quello della comunicazione aziendale, tutta puntata al positivo: non esiste il No, non esiste il brutto, non esiste la negatività ma tutto deve diventare esempio di realizzazione riuscita di qualcosa (anche le persone che spesso non rappresentano un bel niente). È una comunicazione ottimistica che assomiglia molto a quella berlusconiana degli anni migliori ma che non tiene conto del fatto che nel frattempo l’Italia è stata attraversata dalla crisi economica e sociale e che l’idea politica non è un prodotto ma qualcosa di diverso. Berlusconi vendeva un sogno agli italiani illusi di poter diventare come lui. Il risveglio è stato l’incubo dello spread e del Governo Monti. Oggi gli italiani sono delusi e arrabbiati e faticano a credere in un altro sogno, soprattutto se non ne vedono le fondamenta e se chi lo propone sta già al Governo e da lui si aspettano miracoli (che ovviamente non sono possibili e dove anche lo fossero non verrebbero percepiti o verrebbero considerati non sufficienti).
Renzi ha vinto il congresso del PD e le elezioni europee da rottamatore e da propulsore del cambiamento e lo ha vinto in prevalenza su quello non sulla sua eventuale idea di Paese. Al Governo Renzi ha fatto molte leggi positive, ricordate tutte nel messaggio di saluto dopo la sconfitta, ma è chiaro che la costruzione di un percorso non ha lo stesso impatto e la stessa forza dell’urlo di rottura. È molto più facile, invece, per le opposizioni urlare contro le cose che non vanno, imputandole al Governo anche quando il Governo non c’entra o quando sono cose palesemente false.
Renzi aveva anche assunto il guru di Obama per la campagna elettorale ma lo stile di Renzi è diverso da quello di Obama. Obama accendeva speranza, lasciava intravedere un percorso di riscatto, dava una visione, non nascondeva i problemi e le cose negative ma invitava a rilanciare e risolvere. Renzi rompeva il sistema, piaceva quando diceva di voler scardinare l’esistente, al resto non faceva caso nessuno ed è evidente che da uomo di governo non può essere percepito come contro il sistema pur avendo uno stile profondamente diverso dai predecessori governativi.

Un altro aspetto è che la campagna elettorale sembra ormai essere prettamente mediatica. I mezzi tradizionali servono a poco: i volantinaggi e gli eventi servono a dare visibilità ma spesso non spostano voti. Lo si era già cominciato a vedere alle elezioni amministrative e con il referendum è stato ancora più chiaro.
Questo può diventare un problema se si andrà verso elezioni con preferenza perché i “non famosi” potrebbero avere grandi difficoltà a raccogliere consenso, anche mettendo in campo uomini e risorse, se non passano dai media.
Inoltre, è stata in prevalenza una campagna elettorale caotica, fatta di piccole cose, di piccoli eventi, di piccoli contatti. Il presupposto – corretto – è che oggi le mobilitazioni di massa funzionano poco, le persone non vengono raggiunte e coinvolte e poi per quelle sono sufficienti le televisioni mentre invece bisogna andare a prendere i singoli e raggiungerli dove si trovano, anche dentro casa. È una teoria. Può anche funzionare. Il dato di fatto che avendo venti micro eventi al giorno si rischiava di non pubblicizzarne neanche uno, di non dare valore a nessuno di essi (quindi non far capire qual era l’evento principale e quali quelli secondari). La strategia, comunque, di per sé non è errata ma può generare confusione e si può fare fatica a raccogliere pubblico.

Ora, però, è andata così e restano tutti i problemi conseguenti al risultato della vittoria del No. E il problema per l’Italia non è che resta il CNEL, che rimangono 315 senatori stipendiati e non si tolgono soldi ai gruppi dei Consigli Regionali.
Il problema è che ora l’Italia è senza governo.
Impiccare l’operato di un Governo che stava lavorando bene e anche velocemente per fare cose utili per i cittadini (magari non sempre con risultati visibili nell’immediato) all’esito del voto su una riforma che piaceva davvero a pochi anche tra i sostenitori del Sì, è stato uno sbaglio terribile.

Così come altrettanto sbagliati sono i discorsi che si sentono fare in questi giorni in prevalenza da esponenti del PD sul PD. In quei discorsi manca esattamente «il fare politica per qualcosa» che citava Renzi nel suo discorso post-referendum.
Ora si parla di elezioni anticipate, di percentuali e di regolamenti di conti in una discussione tutta autoreferenziale in cui in cui contano i destini personali, conta chi comanda, conta portare via il pallone, conta il non restare con il cerino in mano, conta far vedere che si hanno i numeri e non il resto.
Il Paese e i cittadini dove li mettiamo? Vogliamo occuparci di loro e farlo vedere ogni tanto o vogliamo continuare a mandare fuori messaggi su noi stessi?
Perché è vero che le leggi si facevano e si fanno anche su altri temi ma il dibattito sui media era ed è tutto su altro.
Dov’è «il fare politica per qualcosa» nella discussione di questi giorni?
Come andiamo dalla gente a chiedere il voto un'altra volta? A Milano, oltretutto, sarebbe la terza campagna elettorale di seguito. Vero è che fino ad ora in città si è sempre vinto ma i cittadini vogliono vedere anche i risultati dei voti che dànno, non solo i volantini elettorali.

Il Partito Democratico è comprensibilmente agitato per l’esito della consultazione referendaria. È evidente che una sconfitta così eclatante della linea di Renzi pesi anche sul fronte interno, però, ormai il PD era arrivato quasi compatto sul Sì e sarebbe meglio evitare ulteriori drammi.
I comportamenti di alcuni esponenti della minoranza (Bersani, Speranza, D’Alema) sono stati inqualificabili prima e dopo il referendum. Il vederli festeggiare la sconfitta del Segretario del proprio partito e la caduta di un Governo guidato dal proprio partito è ignobile. È evidente, però, che la loro forza numerica è molto scarsa e in quel 60% di No, di loro c’è poco o nulla per cui farebbero più bella figura a stare in silenzio.
L’ambizione della minoranza PD è senza dubbio quella di logorare Renzi: dopo essersi battuti per farlo cadere ora si impegnano per farlo rosolare a fuoco lento in modo che arrivi perdente per la prossima tornata elettorale.
Ragione per cui Renzi e i suoi amici ambiscono ad andare alle urne in fretta.
Di andare alle urne lo chiedono anche gran parte delle opposizioni ma per loro la situazione è più facile: se si andasse al voto dovrebbero iniziare una campagna elettorale e non tutte le forze sono pronte per questo, mentre se si formasse un nuovo Governo avrebbero qualche scusa in più per urlare un po’ più forte e farsi sentire un po’ di più magari accusando il PD di restare ancorato alle poltrone.
È evidente, quindi, che la situazione politica è complessa ma in tutto questo, ancora una volta manca la realtà quotidiana, il Paese, i cittadini, i lavoratori di aziende in crisi che aspettavano gli esiti di trattative governative ora bloccate, le fasce deboli di popolazione a rischio povertà che l’Istat dice essere in aumento e di cui non ci si occupa certo mentre si fa campagna elettorale.

Credo che Renzi possa rimettersi in gioco sul fronte interno, la maggioranza è sicuramente ancora saldamente con lui e forse ora è anche più ampia di prima. Auspicherei, però, che lo facesse con modi e toni diversi rispetto a prima. È, comunque, difficile che Renzi cambi stile: questo è il suo punto di forza e allo stesso tempo il suo punto debole, la ragione per cui piace molto o non piace per niente. Tuttavia, potrebbe almeno scegliersi amici e collaboratori più seri e capaci dei soggetti di cui si è circondato in questi mesi, anche perché andando dritti così si finisce a sbattere.

La politica non è marketing e non deve piegarsi al marketing, anzi, dovrebbe essere il contrario: dovrebbe essere il marketing a trovare formule adeguate ai contenuti dei messaggi politici.
La politica può essere una cosa bella, appassionante, utile al Paese se è un «fare politica per qualcosa» ma occorre riportarla ad un linguaggio di serietà. Questo non vuol dire essere cupi, tristi, pessimisti e complicati ma vuol dire esser seri quando si parla di cose serie. Il linguaggio dei clown va bene al circo, quello delle televendite va bene quando si vendono pentole e materassi. La politica ha bisogno di recuperare un suo linguaggio e un suo spazio. Per riconquistare credibilità, la politica ha bisogno anche di riconquistare autorevolezza. Questo non significa restaurare il grigiore e il politichese ma vuol dire cercare una strada e un linguaggio consono a ciò che il contesto richiede. E vuol dire anche che è il caso di smetterla di dipingere tutti i politici come parte della “casta” ma caso mai far vedere cosa implica il lavoro nelle istituzioni, valorizzare il merito delle competenze acquisite e degli sforzi fatti per arrivare a dei risultati perché quando andiamo a chiedere i voti è difficile ottenerli se lasciamo credere ai cittadini che vogliamo eleggere un pezzo della “casta”.