giovedì 26 gennaio 2017

Giancarlo Caselli e la storia d'Italia

Tantissima gente oggi pomeriggio alla presentazione del libro di Giancarlo Caselli, nella Biblioteca di Chiesa Rossa a Milano. 
L'ex magistrato ha ripercorso momenti della storia recente d'Italia, ricordando i primi passi della lotta al terrorismo e della lotta alla mafia ma anche i veleni che ancora aleggiano su alcuni episodi. 
Caselli ha ricordato la nascita dei pool di magistrati, il coinvolgimento dell'opinione pubblica come elemento fondamentale per isolare il terrorismo, i misteri rimasti attorno al caso Moro ma anche il processo Andreotti, i tentativi di delegittimazione di Borsellino e la fine del pool di Palermo e la vicenda della mancata perquisizione del covo di Riina, fino all'episodio che lo ha riguardato personalmente con le leggi per impedirgli di diventare capo della Procura Nazionale Antimafia. 
 Un dibattito intenso, con molti temi legati alla storia del nostro Paese su cui riflettere.

martedì 24 gennaio 2017

Novità per la sicurezza a Milano

Stasera al circolo di Niguarda, l’assessore alla sicurezza Carmela Rozza è venuta a spiegare alcune delle novità che il Comune di Milano ha in programma di mettere in campo per controllare meglio i nostri quartieri.
L’ambizione dell’assessore è quella di arrivare alla riforma della figura del “vigile di quartiere”: questi dovranno essere l’occhio e l’orecchio del quartiere, non più i soggetti che segnalano solo i tombini rotti o problemi di manutenzione ma figure che dovranno andare in giro per le strade e conquistarsi il favore dei cittadini per farsi raccontare ciò che accade, anche se poi magari l’intervento risolutivo spetterà ad altri farlo.
Oggi – ha spiegato l’assessore - ci sono 75 squadre di vigili e andranno divise per i quartieri.
In merito al problema della sede dei vigili in via di chiusura nel quartiere di Niguarda, l’assessore ha spiegato che, secondo lei, tenere aperti gli uffici comporta che ci stia dentro del personale mentre è più utile che i vigili stiano in strada e sul territorio, che non chiusi negli uffici.
Inoltre, l’assessore ha spiegato il progetto di far affiancare il vigile di quartiere da degli studenti universitari (dell’ambito della sicurezza) di madrelingua estera, in modo che possano rapportarsi correttamente anche con i cittadini che non parlano italiano.
Resterebbero, comunque, problemi nel presidiare la sera e la notte ma l’assessore ha spiegato che ci sono dei vincoli nel contratto e non si può fare molto. Oggi, il contratto, prevede 19 notti all’anno per ogni vigile ma ci sono anche dei limiti diversi in base all’età e agli anni di servizio. Numerose assunzioni di vigili sono state fatte dal sindaco Albertini in anni passati e, ora, è abbastanza difficile ottenere modifiche di contratto o assumere altro personale.
A Milano, comunque, di notte girano 5 pattuglie e poi ci sono alcuni presidi fissi (“servizi mirati” per il controllo di alcune zone in un tempo determinato) e l’assessore ha annunciato di avere l’obiettivo di arrivare ad avere 10 pattuglie notturne: almeno una in ogni zona.
Novità che l’assessore ha annunciato di voler realizzare è l’istituzione di un nucleo di controllo per le case popolari (in particolare per la vendita, il racket e il subaffitto).

sabato 21 gennaio 2017

La Commissione Parlamentare Antimafia a Milano

La Commissione Parlamentare Antimafia è tornata a Milano per due giorni di audizioni e per una presentazione di un dottorato di ricerca dell’Università Statale.
Due giornate intense che si sono aperte con una visita al carcere di Opera, dove si trovano i detenuti in regime di 41bis, per completare un’indagine sul funzionamento di questo modello di carcerazione. La delegazione della Commissione Antimafia, guidata dalla Presidente Rosy Bindi, si poi recata in Prefettura per un ciclo di audizioni con le forze dell’ordine e i magistrati per un aggiornamento sulle tante indagini aperte sulle realtà milanesi e del Nord Italia, dove sono state poste all’attenzione anche alcune vicende riguardanti i Comuni di Corsico, Cisliano, Melegnano e Tribiano.
L’ultima giornata della missione milanese, invece, si è svolta presso l’Università degli Studi, dove Rosy Bindi, insieme a Nando Dalla Chiesa e ai Rettori Vago e Manfredi, ha presentato il primo Dottorato di Ricerca in Studi sulla criminalità organizzata.
Un dottorato fortemente voluto dalla Commissione Parlamentare Antimafia, che metterà a disposizione dei dottorandi la propria documentazione e, grazie a cui, l’Università ha potuto ottenere anche un finanziamento da parte del Governo, composto da 13 settori di specializzazione per poter essere in grado di rispondere alle varie esigenze di chi vorrà intraprendere quel percorso (spesso si tratta di soggetti con profili molto vari, da chi desidera entrare nelle forze dell’ordine, a chi ambisce al giornalismo, a cooperanti di ONG, a chi andrà a lavorare in beni confiscati o a figure della Pubblica Amministrazione che si troveranno poi a dover cercare di contrastare la corruzione).
È il primo dottorato che nasce dall’interazione di più istituzioni: Università degli Studi di Milano, Università del Centro e del Sud Italia, Collegio dei Rettori, Commissione Antimafia, Governo, associazioni e anche Regione Lombardia (che ha erogato 50mila euro per una borsa di studio).
Rosy Bindi ci ha tenuto a ricordare l’impegno della Commissione Antimafia sul fronte della formazione: nei mesi scorsi, infatti, si erano già svolti incontri nell’Università della Calabria e anche all’Università Statale di Milano perché “le mafie si evolvono – ha affermato la Presidente – e anche chi vuole combattere la mafia deve studiare per adeguare i propri strumenti per poter ottenere dei risultati”.
Nando Dalla Chiesa ha rivendicato l’importanza di esser riusciti a far diventare gli studi antimafia degli studi a pieno titolo e non più dei percorsi minori, “segno che oramai viene riconosciuta la gravità della situazione e non la si nega più”, ha commentato il professore, che ha poi sottolineato come a partecipare e ad interessarsi di questa materia siano in prevalenza le donne.
Il Presidente della Conferenza dei Rettori, Manfredi, ha evidenziato l’importanza di creare delle competenze diffuse sul tema del contrasto alle mafie ma anche – proprio grazie al nuovo dottorato - di poter dotare le persone di una preparazione specialistica, mentre Rosy Bindi ha detto che è necessario “laicizzare l’antimafia: per tanto tempo la lotta alle mafie è stata patrimonio quasi esclusivo di associazioni e movimenti civici mentre ora c’è la necessità che diventi un impegno civile di tutti e per questo è importante la formazione”. “Nella storia del nostro Paese c’è anche la mafia e bisogna saperlo se la si vuole combattere – ha affermato Rosy Bindi – e quindi bisogna studiarla a partire dalle scuole”.

lunedì 16 gennaio 2017

Arte Contro la Corruzione: incontro con Don Ciotti e il Procuratore Roberti

Un interessante dibattito dal tema “Arte Contro la Corruzione” questa sera al Teatro Parenti di Milano organizzato da Casa Testori con Don Luigi Ciotti e il Procuratore Nazionale Antimafia Franco Roberti
A colpire è stato soprattutto l’intervento di Roberti, dai toni seri e pacati e dal linguaggio preciso nel cercare di esprimere i concetti che voleva portare all’attenzione del pubblico. Uno di questi era il concetto di “legalità costituzionale”, intesa come il fare leggi rispettose dei principi che sono contenuti nella Prima Parte della Costituzione (Articoli 1-54), che sono il fondamento della nostra Repubblica.
Roberti ha spiegato che girare per le scuole a parlare della “legalità costituzionale” è un lavoro utile alla lotta alle mafie esattamente quanto lo è l’attività della magistratura, tanto che con alcuni colleghi ha deciso di organizzare una “scuola” per “formare i formatori” perché, girando per le scuole, ha notato che spesso ci sono insegnanti volonterosi di infondere la cultura della legalità ma che purtroppo non hanno le competenze adeguate in materia.
Anche Don Ciotti, nei suoi appassionati interventi, ha parlato dell’importanza e della responsabilità di educare, in quanto la “prima corruzione è quella delle coscienze” e per questo serve una rivoluzione culturale e una “rivoluzione delle coscienze”. Le mafie, infatti, secondo Don Ciotti, non sono figlie della povertà ma si avvalgono di povertà ed arretratezza per avanzare mentre la cultura può risvegliare le coscienze.
Don Ciotti, nel corso della serata, infatti, si è soffermato più volte sull’importanza dell’educazione, della cultura e della necessità di una maggiore assunzione di responsabilità in ogni ambito.
“Arte è cultura e queste sono antitetiche della corruzione”, ha spiegato Don Ciotti, ricordando che servono parole di vita, capaci di suscitare passione, desiderio, conoscenza e per questo con Libera svolgono anche la formazione per gli insegnanti perché per insegnare la legalità occorre formarsi, non si può improvvisare e non sono sufficienti neanche sporadici incontri di testimonianza.
E il Procuratore Roberti ha ricordato che “la rivoluzione delle coscienze va accompagnata da buone leggi. Il primo passo per combattere le mafie è fare delle buone leggi, scritte bene, in modo chiaro e comprensibile, che non si possano manomettere e che valgano per tutti”.
Roberti, infatti, ha spiegato che se non si attuano pari dignità sociale e uguaglianza di fronte alla legge non si può fare cultura della legalità ma il problema è che se i cittadini non hanno par dignità sociale, non saranno neanche mai considerati uguali di fronte alla legge. E, infine, per Roberti, è necessario che ci sia il “diritto” affinché ci sia la “giustizia”.
Per Don Ciotti, “La legalità è il mezzo per arrivare alla giustizia”.
Sia Roberti che Don Ciotti si sono poi soffermati a lungo sul problema di impostazione culturale dell’Italia.
Don Ciotti ha detto di fare attenzione a non considerare la legalità come un idolo e che questa parola ormai è stata rubata e la usa spesso chi ne calpesta il valore.
Oggi si è affermata una retorica della legalità che ha trasformato questo termine in una “parola-sedativo” – ha detto Don Ciotti – perché molti hanno scelto un concetto di legalità che sia più malleabile.
Roberti, ha segnalato che occorre spiegare ai giovani che rispettare le leggi conviene perché la corruzione frena lo sviluppo perché frena gli investimenti.
In Italia, secondo Roberti, ci sono però anche troppe imprese che preferiscono stare nel mercato corrompendo piuttosto che investendo in innovazione e questo è un problema culturale del nostro Paese perché pensiamo che la corruzione, tutto sommato, sia qualcosa di accettabile: non viene percepita come un disvalore.
Per Roberti, ci si è anche accorti tardi che la corruzione è un modo di operare utilizzato dai mafiosi molto più delle intimidazioni.
Mafia e corruzione sono due cose diverse – ha segnalato Roberti - ma alla base c’è per entrambe l’idea predatoria della cosa pubblica, il rubare. Dove c’è una corruzione sistemica – ha spiegato il Procuratore - prima o poi arriva anche la mafia.
Sia Roberti che Don Ciotti hanno contestato la mancanza di una legge adeguata contro la corruzione nel nostro Paese.
“Contro le mafie abbiamo ottime leggi, anche in materia di prevenzione le nostre normative sono migliori di quelle degli altri Paesi europei ma non è sufficiente perché non c’è ancora una legislazione efficace contro la corruzione e per regolare il processo penale in modo efficiente. – ha spiegato Roberti - Inoltre, le mafie sono ancora molto sottovalutate in tanti Paesi, mentre in Italia si è usciti da questa fase, però, bisogna comprendere che la mafia non è un fenomeno emergenziale ma strutturale e si alimenta grazie ad una zona grigia di professionisti, imprese, soggetti che si fanno finanziare o aiutare da criminali”.
Roberti ha chiuso i suoi interventi raccontando la sua attività e la lotta al terrorismo, spiegando che in Italia ci sono 26 Procure Distrettuali Antimafia (tra cui quella di Milano, che funziona molto bene) e la Procura Nazionale ha il ruolo di coordinarle. Recentemente alle Procure Antimafia, grazie alle competenze che hanno sviluppato in tanti anni di esperienza, è stata affidata anche la missione dell’antiterrorismo. I meccanismi dei due mondi non sono tanto diversi: Roberti ha, infatti, spiegato che “le mafie sfruttano le diseguaglianze sociali: fanno affari con i ricchi e sfruttano i poveri. La stessa cosa la mettono in pratica i terroristi”. Inoltre, sia terroristi che mafiosi si autofinanziano attraverso traffici illeciti.
Roberti ha poi spiegato che oggi il maggior strumento di reclutamento del terrorismo è la rete internet: lì avviene uno “spaventoso percorso di radicalizzazione” e questo funziona perché spesso ai giovani non vengono fornite alternative.
Rispondendo alla domanda sul perché non ci sono ancora stati attentati terroristici in Italia, Roberti ha avanzato tre supposizioni: 1) l’Islam radicale è meno presente in Italia ed è anche meno violento e più “addolcito” rispetto a quello presente in altri Paesi dove fino ad ora ci sono stati attacchi; 2) l’Italia è la base logistica per organizzare traffici illeciti verso altri Paesi (al Sud si producono documenti falsi con cui le persone si spostano in tutta Europa) e chi gestisce tutto ciò ha più interesse a non attirare l’attenzione per lavorare in modo indisturbato; 3) abbiamo servizi di intelligence molto preparati, grazie ad una lunga esperienza e lavorano bene.
Complessivamente un bellissimo dibattito, con temi importantissimi, bravi relatori e un pubblico (anche giovane) molto attento.

lunedì 9 gennaio 2017

Serve un lavoro culturale e mostrare le differenze tra chi lavora e chi guadagna facendo solo propaganda

Nell’articolo di Ilvo Diamanti pubblicato dal quotidiano La Repubblica in cui si commenta il Rapporto Demos riguardante gli italiani e lo Stato ci sono sostanzialmente due questioni: la prima riguarda la sfiducia dei cittadini verso le istituzioni e i partiti nonostante l’aumento di voglia di partecipazione al processo decisionale, mentre la seconda riguarda l’idea della necessità di riformare le istituzioni e le regole dello Stato, nonostante il prevalere dei No al Referendum sulla Riforma Costituzionale che aveva proprio quell’obiettivo.
Mi soffermerò sulla prima questione: la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni, nella politica, nei partiti perché passa da qui la strada per capire come si andrà avanti in futuro e, eventualmente, come cercare di cambiare la rotta.
Diamanti scrive che i cittadini «Provano sfiducia nei confronti delle organizzazioni sindacali e imprenditoriali. Ma, soprattutto, verso i soggetti di rappresentanza politica. I partiti, lo stesso Parlamento. Sono, come sempre, in fondo alla classifica. Evidentemente, è in questione il fondamento della nostra democrazia, visto che i principali attori della rappresentanza, i partiti, non sono solamente sfiduciati, ma vengono ritenuti "corrotti". Quanto e più che ai tempi di Tangentopoli. Il No al referendum costituzionale, d'altronde, ha avuto - anche - questo significato. Un No al sistema dei partiti. E ai politici che li guidano. In testa: il Premier. La sfiducia diffusa nella società, peraltro, avvolge anche la sfera delle relazioni personali, dei "rapporti con gli altri". Guardati con prudenza da gran parte dei cittadini. Chissà: ci potrebbero fregare...».
Qui c’è la chiave del problema.
La sfiducia parte indubbiamente da lontano e da una lunga disillusione sulle troppe promesse al vento fatte da sempre e su problemi che, invece, restano lì immobili nel tempo o addirittura si aggravano anziché venire risolti.
Ma non è solo questo: è anche e, soprattutto, il “come ci possono fregare” perché si ritiene che siano tutti “corrotti” il vero fulcro della questione.
Del resto le inchieste con cui quotidianamente viene “beccato” qualcuno con le mani nel sacco sono infinite e, anche dove i contorni accusatori sono molto labili e da dimostrare, quotidiani e telegiornali sono più veloci della magistratura e “sbattono il mostro” (in questo caso “il politico”) in prima pagina insieme a tutti i suoi capi di accusa, come se questo fosse già stato condannato.
L’opinione pubblica si forma così.
Come si fa a pensare di recuperare la fiducia dei cittadini se quotidianamente ci sono politici, imprenditori, dirigenti, funzionari pubblici, vip o altri soggetti percepiti come le élite della società, cioè coloro che dovrebbero rappresentarne il meglio, che vengono coinvolti in giri di affari poco puliti?
La realtà non sempre coincide con il percepito: ci sono 945 parlamentari in Italia e quelli coinvolti in inchieste sono una parte esigua, lo stesso dicasi per gli altri esponenti della classe politica o i funzionari pubblici eppure quei pochi emergono con un clamore esorbitante. Questo clamore, nel corso del tempo, da un lato è servito da avvertimento alla classe politica: un monito per ricordare che chi ricopre delle cariche pubbliche lo deve fare a servizio dei cittadini e non degli affari propri e chi si fa gli affari propri prima o poi viene “beccato” e finisce in galera.
Ma dall’altro lato questo prevalere della narrazione del malaffare ha portato al diffondersi nell’opinione pubblica dell’idea che “sono tutti corrotti” indistintamente o, come si usa dire oggi “sono tutti parte della casta” che si costruisce le leggi per arricchirsi e autoassolversi.
La diffusione di un pensiero di questo tipo, inevitabilmente, porta al diffondersi della sfiducia nei cittadini e al trionfo di forze “di protesta” come può essere il Movimento Cinque Stelle.
Fanno molto sorridere i politici del PD e i loro spin doctors della comunicazione quando si vedono su Twitter a replicare ad ogni contraddizione che Grillo e i suoi seguaci lanciano perché la realtà è che il Movimento Cinque Stelle non prende voti per le sue proposte e neanche per le capacità di governo o la rappresentatività dei propri dirigenti (lo si è visto bene dagli scarsi voti online con cui molti sono stati eletti in Parlamento alcuni dei loro big o dal disastro romano ormai sotto gli occhi di tutti) ma li prende perché sono “contro tutti”. Chi è arrabbiato contro “i ladri”, “i corrotti”, “la casta” finisce per votare il Movimento Cinque Stelle e li vota per questo non perché condivide l’idea della decrescita felice, la teoria del ritorno alla povertà o il terrore delle scie chimiche.
E contro un voto deciso in questo modo non serve perdere tempo a inseguire i grillini sul loro terreno per cercare di smontarne la propaganda: è giusto ma è sostanzialmente una perdita di tempo perché si finisce per dare ancora più fiato alle loro trovate.
Così come non serve cercare di essere più grillini dei grillini perché quel terreno è il loro punto di forza e giocano tutto su quello: uno degli errori dell’ultima campagna referendaria è stato anche questo, il cercare di fare gli “anti-casta” mentre si stava sulle poltrone governative percepite come “casta” per antonomasia.
Quello che invece è necessario è un ampio e complesso lavoro culturale da compiere a tutti i livelli della società.
Serve che la politica (ma anche il sindacato) sia più concreta, si occupi dei problemi dei cittadini e faccia promesse che poi è in grado di mantenere perché il vedere risultati è fondamentale se si vuole recuperare credibilità.
E poi serve anche che la politica trovi in modo di far emergere il lavoro per arrivare ad ottenere dei risultati.
Il mondo dei media non è escluso.
È vero che le brutte notizie fanno più effetto e catturano maggiormente i lettori rispetto alle buone notizie ma c’è da dire anche che, sui quotidiani, le buone notizie che ci sono sembrano spesso storie eccezionali, quasi piccoli miracoli e mai la normalità quotidiana di chi fa il proprio lavoro e compie normalmente il proprio dovere e questo è oggettivamente un problema.
C’è da rabbrividire quando si leggono articoli sui parlamentari assenti nelle Aule o le classifiche di presentazione di atti in Parlamento, come se il vero lavoro politico fosse solo lo stare in Aula a schiacciare bottoni o presentare proposte a caso che tanto non avrebbero alcuno sbocco concreto.
Fa anche un certo effetto leggere tutti i commentatori sulle varie dinamiche interne ai partiti e i posizionamenti in vista dei passaggi chiave della vita istituzionale: sono articoli interessantissimi per gli appassionati di politica ma sono articoli che fanno irritare i cittadini che hanno difficoltà concrete quotidiane e vedono sulle pagine dei giornali che va in scena il “teatrino” anziché la ricerca delle soluzioni per loro. Non che il “teatrino” non sia importante, anzi, in base alle dinamiche che si scatenano lì spesso si determinano poi le scelte ma se appare solo quello e non il resto è evidente che si crea una distanza con i cittadini non così esperti o appassionati di politica ma più pressati da altre incombenze.
Ha ragione Michelle Obama quando, salutando gli studenti, ricorda l’importanza dell’istruzione e dice ai ragazzi «Dovete prepararvi a far contare la vostra voce, dovete essere informati e impegnati come cittadini, a dare il vostro contributo. Significa ricevere la migliore istruzione possibile, in modo da pensare criticamente, esprimervi chiaramente, trovare un buon lavoro, supportare la famiglia, essere una forza positiva per la comunità».
La realtà, purtroppo, è che spesso le masse sono poco istruite e non tutti hanno la voglia e la capacità di vagliare tutte le informazioni a disposizione criticamente. Alcuni non ne hanno neanche il tempo perché hanno cose più urgenti da fare.
Ecco perché una narrazione corretta e che diffonda un’informazione veritiera è importante.
Ed è importante che anche la politica impari a fare di se stessa una narrazione diversa, che faccia emergere con più forza il proprio lavoro, al centro del quale devono esserci l’interesse del Paese e dei cittadini e che non abbia paura di raccontarlo questo lavoro. Lo si faccia vedere il cosa si fa e il come lo si fa negli uffici, nelle Aule istituzionali, nelle riunione decisionali.
Si metta in luce la differenza tra chi lavora e lo stipendio (alto o basso che sia) se lo guadagna e chi, invece, sta sulla poltrona a parlare e basta senza fare nulla.
I veri “ladri”, la vera “casta che ruba lo stipendio” scaldando le poltrone e non facendo niente di concreto sono i signori della propaganda.
Se non riesce a mostrare questo, se non si riesce a far passare le differenze, continueranno a prevalere i polveroni delle notizie sulle inchieste con cui si alimenterà solamente il vento degli esperti di propaganda che ci soffiano sopra e non si avrà mai un recupero della fiducia da parte dei cittadini.

giovedì 5 gennaio 2017

I CIE

Nella discussione polemica di questi giorni sui CIE si dimentica un dato sostanziale: i CIE di cui parlano la circolare del Capo della Polizia Gabrielli e il Ministro dell'Interno Minniti sono di fatto dei centri che servono per l'identificazione e l'espulsione di persone che non hanno i requisiti per restare in Italia, non c'entrano nulla con l'accoglienza e l'integrazione (per cui probabilmente sono più adeguati altri tipi di strutture). Sicuramente occorrerà che vengano esplicitate meglio le modalità di formazione e gestione di queste strutture, così come resta il dubbio sulla questione delle espulsioni (è un po' difficile espellere persone prive di documenti e, quindi, non identificabili e senza accordo con i Paesi di provenienza o addirittura non conoscendone lo Stato di provenienza). Tuttavia, prima di discutere va compreso questo dato sostanziale per cui il CIE non è preposto né all’accoglienza né tanto meno all’integrazione. Il che non vuol dire che i CIE debbano diventare dei lager, anzi, si auspica proprio il contrario e che si creino le condizioni affinché le persone che vi debbano entrare possano trovare delle situazioni rispettose.
L’accoglienza diffusa sui territori e il lavoro per l’integrazione, però, è tutt’altra cosa che non c’entra con i CIE che si intendono realizzare per gestire le espulsioni.
È vero che avrebbe dovuto essere così anche qualche anno fa e la situazione è poi degenerata con migranti che si sono ritrovati più prigionieri che ospiti di strutture non adeguate e difficili da gestire, anche per periodi molto lunghi.
Il fatto che si è fallito una volta, però, non implica che si debba fallire nuovamente, anzi, forti di quell’esperienza non positiva, si dovrebbero avere gli elementi per riuscire a realizzare soluzioni migliori rispetto al passato.
Il dire semplicemente No, non è una soluzione al problema che purtroppo esiste e va fronteggiato.

martedì 3 gennaio 2017

La rivolta di Cona e il vuoto dei politici

Prima che Beppe Grillo monopolizzasse le scene con la sua cazzata quotidiana, la notizia che teneva banco stamattina era quella della rivolta dei migranti ospiti di una struttura a Cona in Veneto, in seguito alla morte di una ragazza. La notizia diffusa dal Corriere della Sera e poi rilanciata da RaiNews stava suscitando notevoli commenti pesanti tra gli esponenti politici, in netta prevalenza del centrodestra e poi delle loro tifoserie sul web. L'enfasi era posta sul fatto che i migranti, con la loro rivolta, stavano di fatto arrecando danno e disagio anche agli operatori del centro e questo ha suscitato la reazione dei politici (contro i centri di accoglienza, contro i migranti da espellere tutti). 
Quasi nessuno ha detto una parola sulla ragazza morta. 
Essere classe dirigente vuol dire anche avere responsabilità quando ci si esprime. 
Oggi umanità e intelligenza non le ha espresse nessuno.