sabato 20 settembre 2014

Renzi e il PD

C'è una cosa che veramente mi fa arrabbiare. Matteo Renzi ha portato il PD a vincere le elezioni con il 40,8% che, - al netto dell'astensionismo alto - resta una cifra mai vista e che probabilmente non rivedremo (a meno che non si passi al bipartitismo). Cito Matteo Renzi non per simpatia (a me non è simpatico per nulla) ma perché credo che il merito di questo grande risultato gli vada riconosciuto. Renzi è stato il fattore innovazione che ha suscitato attenzione e speranza negli italiani. In molti sono venuti a votare dicendoci che votavano PD perché era il partito di Renzi, che piaceva lui e volevano dargli forza affinché portasse avanti i cambiamenti annunciati. Renzi ha portato a votare per il PD anche tutti quei ceti produttivi che da anni non riuscivamo più ad intercettare e questa volta hanno scelto noi perché le risposte e le promesse di Renzi erano in linea con le loro richieste e con le nuove esigenze della società che da tempo si è nettamente trasformata.
Ora, lasciando perdere le tematiche istituzionali (di cui probabilmente alla maggioranza dei cittadini importerà poco o nulla), Renzi sembra aver annunciato che strada intende assumere su temi economici e del lavoro e sono i temi per cui la maggioranza di quel 40% ha votato il PD alle elezioni e la maggioranza del 68% ha votato Renzi alle primarie del PD.
Questo non vuol dire che tutti debbano necessariamente essere d'accordo con la visione che Renzi propone ma che una parte del PD (di cui Renzi è espressione e segretario eletto con il 68%) si metta a fargli la guerra, con l'implicazione che poi ci si costringa a fare accordi con Berlusconi per avere i voti che in Parlamento che altrimenti mancherebbero è una vergogna. E' una vergogna che un partito faccia di tutto per mantenere un congresso permanente nonostante un risultato così netto e così ampiamente confermato. Ed è una vergogna che chi ha fallito per anni perdendo tempo e occasioni e proponendo visioni già allora distanti dalla realtà e lontane dalle richieste dei cittadini (perché se non votavano il centrosinistra era perché le proposte presentate non convincevano e non per altri strani motivi) ora salti fuori a dare lezioni all'unico che ha saputo vincere e interpretare le nuove richieste della società.
Adesso è ora che il PD smetta con i congressi permanenti, con i posizionamenti interni di cui ai cittadini non interessa nulla e che non producono altro che un allontanamento degli elettori. Discuta se serve farlo (nelle opportune sedi) ma poi trovi la sintesi perché è ora che il PD lavori unito e si compatti attorno a delle proposte che devono essere portate avanti da tutti e devono confrontarsi con la società reale di oggi e non con quella di ieri o con quella che ci piacerebbe ma non esiste.

venerdì 19 settembre 2014

L'anacronistica battaglia sull'Art. 18

Quando non si sa più cosa dire, nel centrosinistra si riapre lo scontro intorno all'Art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Articolo, per altro, anche già oggetto di referendum diversi anni fa e di modifiche in seguito alla legge Fornero (il punto di discussione era su equilibrio tra reintegro e indennizzo).
Oggi la battaglia ricomincia. Lo scontro è tra Governo (a guida di Matteo Renzi) e il sindacato CGIL ma anche all'interno del PD stesso (come su ogni argomento).

"Vogliono abolire l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. - scrive Marco Esposito su Giornalettismo - Ecco, per un trentenne di questo paese, non esiste un evento che regali altrettante indifferenza. E il motivo è semplice: l’articolo 18 è un qualcosa che non ha mai riguardato i giovani italiani. Semplicemente perché esistono almeno un’altra quarantina di contratti alternativi (e tutti più convenienti per il datore di lavoro) , e, pertanto, nella stragrande maggioranza dei casi, nessuno offre un contratto a tempo indeterminato. Diciamolo chiaramente: la battaglia sull’articolo 18 – oggi – appassiona una stretta cerchia di persone, per lo più sopra i 50 anni, e un ristretto giro di giornalisti nostrani. E, ovviamente, i sindacati. Che dell’articolo 18 fanno una bandiera, un punto d’onore, l’ultimo baluardo da non far cadere. Ma la realtà è che anche e soprattutto i sindacati, ad iniziare dalla CGIL, che ha circa il 50% di iscritti tra lo SPI CGIL, il sindacato dei pensionati (ma perché i pensionati hanno bisogno di un sindacato?), dei problemi dei giovani di questo paese se ne è spesso fregato. Ricordiamo come sulla pelle dei più giovani, grazie all’allora ministro Damiano, fu abolito lo scalone voluto da governo Berlusconi, scaricando i costi di quella riforma sull’aliquota pensionistica dei contratti dei co.co.pro e delle partite iva. Un chiaro esempio di come sindacati e centrosinistra fecero una precisa scelta, spostando risorse economiche a favore dei più anziani, e a discapito dei più giovani".
"Quello che non deve sfuggire - continua Esposito - è che il mondo del lavoro per il quale lo statuto dei lavoratori fu pensato, semplicemente, non esiste più. Nel 1970 si entrava in un’azienda da giovani, per rimanerci tutta la vita, o quasi. Il nostro è un sistema di ammortizzatori sociali pensate non per tutelare il lavoratore, ma per conservare il posto di lavoro. Bisogna avere il coraggio di cambiare. Di andare avanti, di accettare la sfida del mondo del lavoro che cambia. Chi scrive nel solo 2014 ha lavorato in tre posti di lavoro diversi. Nessuno ha intenzione di dire che questo sia un fatto positivo, ma questo è il quadro all’interno del quale ci muoviamo. E a questo scenario bisogna adattarsi riscrivendo le garanzie del mondo del lavoro. E’ necessario pensare ad un piano di ammortizzatori sociali che accompagni il lavoratore tra la fine di un lavoro e l’inizio dell’altro. E’ questo il vero obbiettivo sui cui bisogna concentrarsi. Il rischio, senza questo decisivo bagno di realismo, è quello di lottare per mantenere intanto un sistema di regole che non ha più alcun riscontro con la realtà. Basta farsi un giro in qualsiasi realtà lavorativa italiana per rendersi conto che l’articolo 18 oggi come oggi, è una chimera per chi entra in un’azienda e – soprattutto – oggi tutela circa la metà dei lavoratori dipendenti. Cioè chi lavora in una società con almeno 15 dipendenti".

Ed è esattamente così. Come è vero ciò che scrive sul sindacato Paolo Natale su Europa: "I sindacati si occupano solamente dei propri iscritti, di chi il lavoro ce l’ha ed è occupato nelle aziende medio-grandi. Per tutti gli altri, per chi non ha lavoro, per chi è precario, per chi è in nero e cerca qualcosa di meno provvisorio, le loro azioni paiono inesistenti. Se non contro-producenti."

Insomma, spiace dirlo ma ha ragione Fabrizio Forquet che, su Il Sole 24 Ore, scrive: "Oltre l'80 per cento dei nuovi contratti oggi non solo non ha l'articolo 18 ma non ha nessuna delle tutele del contratto a tempo indeterminato. E soprattutto quattro giovani su 10 non trovano alcun lavoro. Questa è la realtà lì fuori. Chi non la vede si illude di difendere i lavoratori ma protegge in realtà una ridotta che sa sempre più di discriminazione. Il diritto che va difeso e sostenuto, oggi, è quello di lavorare e creare lavoro".

Il mondo del lavoro è cambiato. Piaccia o meno, è tutto molto più incentrato sul singolo individuo e il posto fisso (logica per cui si entrava in un'azienda e all'interno di quella si cresceva, ci s formava e si faceva carriera) non esiste quasi più. Oggi occorre una formazione continua e il più aggiornata possibile e anche una certa capacità mentale di adattarsi ai vari e sempre possibili cambiamenti che possono incorrere e, spesso, fare carriera coincide con un cambio di azienda e non con un cambio di ruolo all'interno del posto in cui si lavorava prima. Questo è un problema perché richiede una enorme capacità di competere come individui in un mercato che è spietato e implica una forte dose di stress (oltre che di precarietà e rischi economici se non si hanno le spalle coperte). Su questo nuovo e difficoltoso modo di lavorare mancano tutele e sostegni e vanno creati perché la maggior parte di chi entra nel mondo del lavoro oggi vi entra con queste logiche e si ritroverà sempre di più a fare i conti con questa realtà e su questo sembra che sia la politica che il sindacato non siano particolarmente preparati.