domenica 26 giugno 2011

Il Pci, Milano e l'Europa

Tanta gente ieri pomeriggio a visitare la mostra “Avanti popolo. Il PCI nella storia d’Italia”, dedicata al Partito Comunista, nella nuovissima Triennale Bovisa di Milano. Un allestimento moderno e particolare, tutto giocato sui monitor da cui è possibile vedere scorrere le fotografie o i filmati della storia del partito di Berlinguer, ma anche tessere, volantini, vignette…
“Il PCI, Milano e l’Europa” era il tema affrontato dal convegno che si è tenuto all’interno della mostra nel corso del pomeriggio e che ha visto la partecipazione di Bruno Marasà, Gianni Cervetti, Patrizia Toia ed Antonio Panzeri.
Marasà ha aperto la discussione facendo una sorta di excursus storico sul Partito Comunista in Italia, concentrandosi, in particolare, sulla sua fase di apertura verso l’Europa e verso il mondo, a partire dalla metà dagli anni 1975/1976 con Berlinguer ma anche con l’arrivo (da indipendente) di Altiero Spinelli.
La storia del Partito Comunista Italiano è stata oggetto anche dell’intervento di Gianni Cervetti, il quale, però, ha precisato che l’europeismo e l’interesse all’internazionalismo sono state scoperte tardive perché il PCI inizialmente era interessato alla nazione e la svolta – a suo avviso – avvenne tra il 1964-1968. Cervetti ha cercato di ripercorrere la storia del PCI in relazione all’Europa, arricchendo la discussione con aneddoti, racconti di incontri con uomini politici dell’epoca e del suo lavoro all’interno del partito.
Antonio Panzeri è partito da tre concetti: 1) Per arrivare alla fase dell’Europa in cui ci troviamo è perché ci si è creduto e si è compiuto un percorso che ha portato a questo e che, sostanzialmente, implica da parte degli Stati la cessione di un po’ della loro sovranità nazionale in favore di una visione comunitaria; 2) Gli effetti della globalizzazione hanno reso evidente la necessità di avere organismi di discussione più grandi che non i singoli Stati e su questo è venuta utile l’Europa; 3) Occorre costruire l’identità dell’Europa anche dal punto di vista politico e del saper formare cittadini europei.
Secondo Panzeri, il processo di avvicinamento all’Europa da parte del PCI è avvenuto in diverse fasi ma, con la caduta del Muro di Berlino nel 1989 e il passaggio da PCI a PDS, alla sinistra italiana è mancato il confronto vero con la sinistra europea e i partiti socialdemocratici. Oggi, ha detto Panzeri, «siamo in una posizione molto più felice rispetto a loro ma c’è l’esigenza di fare un salto di qualità da parte delle forze progressiste europee per far fronte comune ai grandi cambiamenti che la realtà attuale ci impone di affrontare».
Panzeri ha ricordato la lentezza del Partito Comunista ad aprirsi alle questioni europee, precisando però che in gran parte era dovuta anche al fatto che l’Europa, allora, era divisa in due blocchi e c’era la “guerra fredda”, mentre oggi si può dire che «la scelta europeista è irreversibile».
Panzeri, in chiusura, ha anche segnalato che «è vero che i comunisti sono stati molto critici verso l’Europa ma quando si sono trovati a ricoprire cariche all’interno delle istituzioni europee sono stati quelli che hanno lavorato con maggior spirito europeistico».
Patrizia Toia, invece, ha sottolineato che nell’Europa c’è tutto il nostro passato e oggi può diventare un nuovo scenario, per questo occorrono nuove risposte e il Partito Democratico si colloca in questa esigenza.
Patrizia Toia ha concentrato il suo intervento per ricordare la scelta europeista di De Gasperi (il quale ha creduto personalmente e con convinzione a questa ide, non soltanto perché in quell’ottica era orientata la cultura politica della DC). «De Gasperi aveva una visione di adesione internazionalista e regionalista all’Europa; per lui non si trattativa soltanto di aderire alla Nato per ragioni di difesa ma perché lì si è creato il primo nucleo per realizzare poi anche un’entità politica», ha affermato Patrizia Toia.
«L’Europa è anche una comunità di valori e chi vi aderisce deve aderire anche ai suoi valori di fondo», ha evidenziato la deputata europea, ricordando anche il ruolo avuto dal nostro Paese proprio nella costruzione dell’Unione Europea e rammaricandosi per il comportamento attuale così poco europeista da parte di alcuni esponenti italiani.
Patrizia Toia ha poi raccontato del ruolo del Pd in Europa e della collocazione del partito all’interno dell’alleanza progressista dei Socialisti e Democratici: «Noi come Pd abbiamo fatto un grosso passaggio con l’intento di essere utili al Paese ma siamo anche aperti alle nuove sfide europee e mondiali», ha detto l’europarlamentare, affermando che anche il segretario Bersani è intenzionato a rimettere l’Europa al centro delle tematiche politiche nazionali.
In merito alla collocazione del Pd, Patrizia Toia ha affermato che sicuramente è possibile fare di più dentro le istituzioni europee, si lavora bene nelle commissioni ma occorre che il Partito Democratico faccia più politica all’interno del proprio gruppo. La discussione in merito al partito unico europeo, secondo Patrizia Toia, è difficile e prematura, in quanto i partiti europei sono sempre un po’ la somma di quelli nazionali dentro ad organismi internazionali e il Partito Democratico ha saputo far aprire una fase nuova anche a quello che una volta era il PSE e, di conseguenza, a tutto il Parlamento Europeo.
La discussione portata dal Pd ai partiti socialdemocratici, ha ricordato Toia, che non è sempre stata compresa da subito, mentre «adesso che cominciano ad arrivare le vittorie elettorali nostre e continuano a ricevere sconfitte i partiti socialdemocratici, cominciano a capirci un po’ di più».
«Oggi – ha concluso Patrizia Toia - si può fare un partito europeo discutendo dei temi che ci accomunano e che sono quelli che rappresentano la nostra idea di Europa, basata cioè su pace e prosperità, difesa dello sviluppo “egualitario” o “inclusivo”, i diritti, la sostenibilità, education, crescita…».

martedì 21 giugno 2011

Le politiche dell’Unione Europea sull’immigrazione

Un interessante convegno dedicato alle politiche dell’Unione Europea sull’immigrazione si è svolto ieri pomeriggio alla Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Milano, a cui hanno partecipato i rappresentanti della politica e delle istituzioni.
Matteo Fornara, direttore della Rappresentanza a Milano della Commissione Europea, ha aperto l'incontro, tracciando un quadro generale delle politiche europee in materia di immigrazione, contestualizzandole nello scenario in cui l’Unione si muove, ovvero la crisi economica e la conseguente scarsità di risorse ma anche il ritorno in scena di forze politiche demagogiche e dai tratti xenofobi anche nei confronti di Paesi che fanno parte dell’Europa. Un contesto, dunque, non facile quello in cui l’Unione si trova ad agire e per questo, secondo Fornara, è anche complicato avviare delle politiche nuove.
«Molti Paesi ragionano pensando a cosa possono ottenere dall’Unione Europea e non pensano a cosa possono dare», ha commentato Fornara, evidenziando la scarsa disponibilità delle nazioni a cedere un po’ della loro sovranità in vista di un’ottica comune e di politiche comunitarie.
Fornara ha sottolineato il valore del Trattato di Lisbona, nato prima della crisi ed entrato in vigore durante, e ad esso spetta il compito di fare da base per una politica nuova ambiziosa.
Del Trattato di Lisbona, Fornara ha citato gli articoli 79, secondo cui l’Unione Europea si deve impegnare a sviluppare una politica comune in materia di immigrazione, e 80, che prevede la solidarietà tra i Paesi dell’Unione nell’applicazione delle norme sull’immigrazione, ma ha anche segnalato che di recente è avvenuta la rivolta dei Paesi del Mediterraneo e si è creata un’emergenza immigrazione che non è percepita allo stesso modo da tutti i Paesi (ad esempio la Polonia ha espresso più volte di avere altre priorità).
Fornara ha precisato che quelle che stanno avvenendo nel Mediterraneo sono migrazioni inferiori a quelle avvenute in altri periodi o a quelle che avvengono via terra, ad esempio tra la Grecia e la Turchia.
«L’Unione Europea, attualmente, è impegnata nell’intervento per la gestione della crisi in Libia e poi ha stanziato 100 milioni per la Tunisia e l’Egitto», ha spiegato Fornara.
In merito alla gestione delle frontiere, l’agenzia Frontex (che ha risorse limitate e che devono essere ampliate) lancerà a breve delle operazioni, inoltre, il 24 maggio è stato approvato un documento contenente 31 misure legislative che dovrebbero entrare in vigore alla fine del 2011 e che andranno a costituire la base della politica dell’Unione Europea in materia di immigrazione.
Nello specifico, il documento – ha spiegato Fornara – si basa su quattro punti: 1) Schengen, 2) Sistema europeo di asilo improntato alla solidarietà tra i Paesi membri (il 1° giugno sono state presentate delle proposte per delle procedure omogenee che attualmente mancano tra gli Stati europei e a Malta è operativo un nuovo ufficio dell’Unione per la gestione delle richieste d’asilo), 3) controllo alle frontiere esterne per facilitare l’immigrazione regolare (ne serve molta ma deve corrispondere alle esigenze del mercato del lavoro) e contrastare quella irregolare (quindi rafforzando Frontex, dotandola di maggiori risorse e nuove competenze), 4) politica dei visti atta a favorire le possibilità di chi si deve spostare (a cui però continueranno ad affiancarsi gli accordi bilaterali). In sostanza questi punti mirano ad una gestione maggiormente comunitaria dei problemi legati all’immigrazione, lasciando meno spazio alla discrezionalità dei singoli Stati.
Fornara ha fatto notare l’introduzione di principi importanti per contrastare l’immigrazione illegale ma che per essere attuati necessitano di fondo e le trattative per le disponibilità economiche dell’Unione iniziano adesso.
Fornara ha fatto sapere anche di una lettera di Barroso al Consiglio Europeo che dovrà riunirsi a breve, in cui ha sottolineato due priorità: 1) l’immigrazione, 2) il Sud, il Mediterraneo e il vicinato, per cui serve un rappresentante speciale e una task force specifica (oltre che un buon budget per gestire la transizione democratica in quei Paesi e un programma di mobilità sul lavoro), e questa questione non è ritenuta importante da tutti gli Stati (Gran Bretagna e Germania sono più interessati all’Est).
Se il discorso di Fornara è stato molto positivo e, pur ammettendo che le politiche comuni che si sono concretizzate in precedenza sono state poche, si è mostrato molto fiducioso riguardo al futuro. Di tutt’altra piega è stato il pensiero espresso da Alessandra Lang e Antonio Panzeri.
Alessandra Lang, dell’Università degli Studi di Milano, ha rilevato che molte proposte ambiziose da parte dell’Unione Europea erano state presentate anche in precedenza ma poi non erano state accolte dai singoli Stati che ne avevano preferito ricavare degli atti molto più blandi.
Molto cupo sulle possibilità di un’azione efficace da parte dell’attuale Europa è stato Antonio Panzeri, presidente delegazione per le relazioni con i Paesi del Maghreb e l’Unione del Maghreb arabo del Parlamento Europeo, il quale ha segnalato che nell’Unione Europea pesano molte decisioni che non sono state assunte in precedenza e, attualmente, il dibattito interno è molto difficile.
In merito all’area del Mediterraneo, Panzeri ha ricordato che l’Europa in passato ha tacitamente appoggiato i regimi contro cui adesso il popolo si rivolta, perché facessero da argine ai fondamentalismi. La crisi ha scatenato le rivolte e adesso l’Europa si sta riposizionando.
Il tema dell’immigrazione, inoltre, secondo Panzeri, in Europa è spesso soltanto preso in considerazione dalle forze xenofobe in vista delle campagne elettorali perché negli europei prevale il sentimento della paura che porta automaticamente ad una chiusura.
Panzeri ha ricordato anche come i Paesi del Mediterraneo non sono una priorità per tutti gli Stati europei e quindi è difficile produrre una politica comune.
Per l’Italia ciò che avviene a Sud del Mediterraneo è importante anche per ragioni geografiche, per altri Stati non è così automatico.
Secondo Panzeri, questo è dovuto anche ad un deficit della classe dirigente che non è in grado di vedere oltre la quotidianità per mostrare delle prospettive. «Ci sono molti surfisti che viaggiano sull’onda e pochi che pescano in profondità», ha affermato Panzeri.
In merito alle istituzioni europee, Panzeri ha evidenziato la necessità di una maggior sintesi tra Parlamento, Commissioni e Consiglio e servono anche governi dei singoli Stati che operino tenendo presente un’ottica comune perché gli accordi bilaterali da soli non bastano e non vanno bene se contrastano con le norme comunitarie.
Panzeri ha ricordato il caso di Italia-Libia, in cui il governo italiano pensava di relegare il problema dell’immigrazione ai libici ma poi con lo scoppio della rivolta, tutto è finito in niente. Per questo, secondo l’europarlamentare, è necessario che gli Stati cedano un po’ della loro sovranità in favore di un’ottica comune per dare risposte che siano europee e non solo nazionali e tutte le sfide vanno affrontate in questo modo.
Una sfida importante per l’Europa, ha ricordato Panzeri, sarà quella demografica: «i Paesi del Sud del Mediterraneo hanno una popolazione di età media di 27 anni, gli elettori di Milano alle ultime elezioni hanno un’età media di 55 anni», ha sottolineato il deputato europeo, evidenziando che la tendenza è quella di un progressivo invecchiamento della popolazione europea e i tassi di natalità sono prossimi allo zero.
Così come è un’altra sfida importante quella climatico-ambientale che, ha segnalato Panzeri, muove i processi migratori; oppure i problemi derivati dalla globalizzazione economica, le guerre civili, l’assenza di diritti in alcuni Stati… sono tutti fenomeni che generano fughe e migrazioni.
Panzeri ha sostenuto che servirà una politica economica generosa nei confronti dei Paesi del Mediterraneo e ha citato il caso della Tunisia, che prima cresceva e adesso è in una fase di stagnazione, il turismo è scomparso e molte aziende sono state messe in piedi da stranieri perché la manodopera costava poco ma fanno in fretta a chiudere e a spostarsi altrove.
Per Panzeri, inoltre, serve fare crescere aree di libero scambio tra i Paesi dell’Unione Europea e quelli del Mediterraneo ma anche all’interno dei Paesi del Mediterraneo perché si superino le divergenze in atto come quelle tra Marocco e Algeria.
In sintesi, secondo Panzeri, serve un’idea lungimirante sulla politica dell’immigrazione, perché altrimenti viene vista solo dal lato securitario.
Più cauto Panzeri si è mostrato sulla discussione riguardante Schengen, soprattutto data la composizione fortemente xenofoba delle politiche di alcuni Stati Europei: «Schengen è una conquista dell’Unione Europea fatta per facilitare i trasporti ma è normale che oltre alle merci viaggino anche le persone e l’immigrazione può essere una grande possibilità economica, oltre che culturale», ha concluso Panzeri.

domenica 19 giugno 2011

Il direttore dell'Unità

Da un paio di giorni, il popolo più attivo della sinistra sulla rete non parla d'altro ma la notizia è diventata ufficiale soltanto ieri sera: Concita De Gregorio lascerà la direzione dell'Unità, come fa sapere lei stessa da un comunicato stampa scritto con l'editore.
La decisione fa discutere molto anche perché qualcuno aveva fatto circolare l'ipotesi che la sostituzione fosse dovuta a delle divergenze tra la direttrice e Massimo D'Alema (oltretutto la De Gregorio era stata nominata dalla segreteria Veltroni).
La realtà, un po' triste a dire il vero, è che in Italia tutti i direttori di giornale cambiano per ragioni politiche e, ultimamente, ne sono cambiati parecchi, anche per testate che non sono così agganciate ai partiti come può essere L'Unità e nessuno ha battuto ciglio, mentre il vero scandalo dovrebbe essere lì e non sulla nomina di un direttore di un giornale che, comunque, per quanto si proclami libero, è notoriamente un organo di partito (lo stesso editore Soru è un uomo del Pd).
Spiace sempre quando un bravo direttore lascia un giornale, spiace quando a rimuoverlo sono le ragioni della politica e non le leggi del mercato e le regole e le carriere giornalistiche. Al di là delle opinioni e degli affezionamenti dei lettori, tuttavia, è impossibile non leggere in chiave politica l'avvicendamento tra Concita De Gregorio - che ha spinto molto L'Unità su una linea profondamente antiberlusconista, incentrando inchieste di mesi sul premier, ma che ha anche mostrato una sua autonomia di pensiero discostandosi dalle idee della segreteria del Pd, lanciando campagne come quella sulla raccolta firme in favore del mantimento delle primarie sempre oppure esponendo se stessa in prima persona nel corso di manifestazioni di piazza con toni e messaggi che andavano ben al di à del suo ruolo giornalistico - e il suo possibile successore individuato nel giornalista politico del Messaggero Claudio Sardo. 
Sardo è un ottimo giornalista, sicuramente vicino al Pd, autore del libro-intervista a Pier Luigi Bersani ma il suo stile giornalistico certamente non è concentrato sull'antiberlusconismo e lui, fino ad oggi, non è stato tipo da esporsi a livello personale e visibile in campagne e mobilitazioni di piazza. Sicuramente, quindi, le premesse sembrano dare credito all'ipotesi della volontà di far prevalere una linea-D'Alema o comunque meno "di battaglia" e più pacata all'Unità.
Tutte le linee sono legittime, poi un conto  parlarne e un conto è vedere come si tradurranno nella pratica ma certo è che sarà arduo il compito del nuovo direttore se l'obiettivo è quello di creare un giornale più sotf nei toni e quindi meno concentrato sull'antiberlusconismo perché, è inutile girarci intorno, i lettori dell'Unità si sa perfettamente che sono elettori del Pd, prevalentemente di origine ex PCI ma non solo, ma comunque di una linea politica sostanzialmente intransigente. Vero è che era intransigente pure la linea di Furio Colombo ma aveva un raggio di interesse molto più ampio rispetto alla linea editoriale attuale e, per quanto Berlusconi sia sempre stato un bersaglio, le inchieste riguardavano anche molto altro (ad esempio una importante era sulla costruzione della scuola di San Giuliano di Puglia in Molise che, crollando nel terremoto, uccise ventisei bambini).
Quello che però, personalmente, mi colpisce è la decisione di portare via dal Messaggero (che è un quotidiano nazionale importante, che ha molti lettori, soprattutto nel Lazio) un giornalista bravo, che tutto sommato è vicino al Pd, per metterlo a direttore di un giornale che comunque è e resterà di parte e potrà sempre e comunque raggiungere soltanto lettori già convinti di votare Pd.
Al Partito Democratico non serve un granché avere degli organi di informazione propri, che puntualmente finiscono per attrarre solo un pubblico che già vota per loro, ma serve avere un'informazione libera e, magari, qualche giornalista (serio e bravo, non "servi") che racconti agli italiani il Pd e le sue proposte meglio di quanto non riescano a fare alcuni dirigenti sui mezzi di comunicazione importanti che arrivano a tutti. Poi va bene che esistano anche canali di informazione propri ma la priorità non può essere parlare agli interni e far recepire una linea all'interno; la priorità deve essere fare arrivare il messaggio del Partito Democratico all'Italia e quindi nei luoghi con cui gli italiani (tutti, o almeno la maggior parte) si informano.
Piuttosto che impegnarsi nella sostituzione di Concita De Gregorio da direttore dell'Unità, sarebbe più utile che il Pd si impegnasse affinché venga rimosso Augusto Minzolini dal Tg1, per la totale mancanza di servizio pubblico ai cittadini sul loro diritto ad essere informati.
 

sabato 18 giugno 2011

Un'informazione libera fa bene a tutti

L'intervento di Elisa Anzaldo (giornalista del Tg1) a Tutti in piedi! in cui denuncia le mistificazioni di Augusto Minzolini: video>>>


venerdì 17 giugno 2011

Pubblico attonito per "L'inizio del buio"

Una presentazione emotivamente intensa quella che si è tenuta ieri alla Feltrinelli Express di Milano per il libro di Walter Veltroni L’inizio del buio” (edito da Rizzoli) a cui, oltre all’autore, hanno partecipato Ilaria D’amico e Carlo Verdelli.
La Feltrinelli Express è un luogo un po’ diverso dalle altre librerie della stessa catena; la stessa sala delle presentazioni si trova in un piano a parte, fuori dal consueto caos di lettori che girano tra gli scaffali ed è rigorosamente blindata: vi si accede soltanto accompagnati dal personale della libreria o della sicurezza e quando lo stabiliscono loro. Ed è un peccato perché sembra una location un po’ asettica (dall’arredamento spoglio, molto minimal) e, per quanto molto grande, rimane isolata e quindi invisibile ai tanti che frequentano la libreria che, se non sono informati di cosa si sta svolgendo, non hanno possibilità di scoprirlo per caso. Spiace un po’ vedere questa chiusura in un luogo notoriamente aperto come Feltrinelli. Tanto che lo stesso Veltroni, che solitamente si trova sommerso da una folla immensa alle presentazioni dei suoi libri, questa volta si è trovato con un pubblico un po’ più ristretto di quello che realmente è in grado di raccogliere.
In sala, oltre ai comuni interessati al libro e all’autore, c’erano anche molti esponenti del Pd milanese, dagli assessori Majorino e Maran, alle senatrici Adamo e Garavaglia (quest’ultima, all’arrivo di Veltroni, gli si è fiondata incontro ad accoglierlo), fino a qualche neoeletto in Consiglio Comunale.
In molti in sala tenevano tra le mani il libro di Veltroni e suscitava un certo stupore la quarta di copertina tutta riempita da un’immagine dell’autore a mezzo busto, più simile ad un manifesto pubblicitario che non al retro di un libro, oltretutto in forte contrasto con il colore scuro del resto.
Ha aperto la presentazione Carlo Verdelli che, con la sua voce profonda, ha tracciato un racconto intenso ed emozionante del testo di Veltroni e delle storie che racchiude.
Verdelli ha citato l’articolo di Magris sul Corriere della Sera di qualche tempo fa in cui denunciava l’indifferenza degli italiani di fronte alla tragedia del Nord Africa e agli sbarchi a Lampedusa, a cui è seguita la risposta di Giorgio Napolitano che confermava la perdita del senso di solidarietà civile del nostro Paese. La causa di questo, secondo Verdelli, va ricercata nella politica ma anche in una certa informazione «che ha esibito in modo sconciato il dolore» (da quello degli omicidi efferati alle semplici banalità) e questa «overdose di sofferenza spettacolarizzata ha finito per produrre assuefazione».
Verdelli ha ricordato come trent’anni fa non esistevano né internet né telefonini, era appena arrivata la tv a colori e c’era stato lo scoperchiamento della P2. Nelle immagini che si trovano al centro del libro si vede l’Italia di allora e il punto di rottura della nostra storia nazionale: per Verdelli si tratta delle foto di «due calvari», quello di Alfredino Rampi e quello di Roberto Peci.
Alfredo Rampi all’età di 6 anni cade nel pozzo come Alice nel Paese delle meraviglie ma, ricorda Verdelli, l’epilogo della sua storia non è quello di una fiaba. Il pozzo (che non doveva esserci perché costruito abusivamente per prendere l’acqua gratis), come è scritto nel libro di Veltroni, è profondo 36 metri (quanto un grattacielo) e il bambino ci rimane dentro vivo per 60 ore: «Noi, leggendo, cadiamo dentro con lui», afferma Verdelli.
E poi c’è il ruolo della televisione, a cui rimangono attaccati 28 milioni di italiani, che riprende, promette e non riesce a mantenere la promessa perché più passa il tempo più si comprende che il lieto fine svanisce.
Il secondo «calvario», come lo definisce Verdelli, è quello di Roberto Peci, antennista venticinquenne di San Benedetto del Tronto, fratello di un terrorista pentito e per questo rapito e ucciso, con modalità mafiose e le foto della sua esecuzione sono state diffuse dai terroristi perché facessero da monito ad altri.
Verdelli ha definito il libro di Veltroni come un «viaggio dentro a qualcosa che ci appartiene. Se ne esce addolorati ma dopo il cuore è un po’ meno intontito. Il libro cura l’indifferenza dentro cui viviamo quotidianamente».
Ilaria D’Amico ha definito Verdelli un «narratore di sentimenti» e Veltroni un «facitore di storie umane, nella cui narrativa c’è sempre la voglia di partire dall’origine». I due fatti citati nel libro, secondo la D’Amico, raccontano l’Italia e possono cambiare il modo di percepire le cose e il nostro senso di colpa, sgombrando il campo da chi dice che quelli passati della Prima Repubblica erano “bei tempi”. La giornalista ha poi definito il viaggio nel libro di Veltroni «bellissimo e tremendo», perché crea un racconto che «ti lascia completamente immerso lì dentro e contiene un’analisi critica di cosa siamo».
Ilaria D’Amico ha ricordato che l’Italia non è l’unico Paese che va a caccia di reality ma ce ne sono tanti altri e nel libro c’è il racconto di questo Paese che vive di follia e in cui anche il Presidente della Repubblica Pertini che si precipita sul luogo della tragedia, inconsapevolmente, sembra essere qualcosa di stonato perché non sa ancora valutare i momenti in cui bisogna esserci e quelli in cui è bene non apparire.
Ilaria D’Amico, però, salva la televisione: «una Rai che allontanava il microfono nei momenti più strazianti di Alfredino», molto diversa da quella attuale.
Veltroni ha raccontato che scrivere quel libro non è stato facile dal punto di vista emotivo e, anche gli incontri preparatori si chiudevano sempre con le lacrime agli occhi degli intervistati (persone che, ha precisato l’autore, in tutti questi anni, non si sono mai più visti in televisione, contrariamente a ciò che accade nel mondo attuale).
Veltroni ha parlato di «meraviglia della sofferenza» e si è detto affascinato da quelle opere dell’ingegno che producono sensazioni fisiche (che siano ridere o piangere), ricordando che ad essere potenti sono le parole perché anche le storie più forti, se raccontate male, non suscitano la minima emozione.
Per scrivere questo libro, Veltroni ha detto di avere seguito una metodologia giornalistica (cioè raccogliere fonti, guardare la documentazione, ricercare sul web) ma poi di avere scelto una forma di scrittura letteraria per restituire le emozioni.
Veltroni ha spiegato che l’idea di questo libro è nata guardando i parenti di Sarah Scazzi in televisione continuamente e di essersi domandato «dove è cominciato tutto questo?» e la risposta è stata con la tragedia del Vermicino perché è lì che per la prima volta «la vita e la morte di una persona (non di una personalità) sono diventate di interesse pubblico».
Del Vermicino restano le voci, ha detto Veltroni, perché le immagini sembrano quelle di un film di Fellini, con una folla di gente scomposta che parla in dialetto e che si inventa le soluzioni più strampalate per fornire un aiuto impossibile: «c’è stata della generosità da parte della gente ma sembrava una follia collettiva», ha ricordato l’autore.
Di Roberto Peci, Veltroni ha ricordato che soltanto oggi a San Benedetto del Tronto esiste una via che lo riconosce come «vittima del terrorismo».
«L’Italia è stata così e per questo non bisogna avere nostalgie. Una volta c’era la P2, adesso è raddoppiata in P4 ma è il passato che ha messo i suoi tentacoli. Il terrorismo ci ha tolto degli anni, io non potevo andare in alcune piazza perché ero di sinistra e quelli di destra non potevano andare in altre piazze», ha affermato Veltroni, segnalando l’importanza della memoria come antidoto perché certe situazioni non si ripetano.
Non era una presentazione semplice quella del libro di Veltroni perché non era semplice l’argomento del suo libro. L’emozionato ed emozionante Carlo Verdelli ha tenuto attonita la platea mentre raccontava le storie narrate in “L’inizio del buio” e faceva una certa impressione guardare le facce serissime e stordite da quell’immersione improvvisa nel dolore, mentre la sala era in ascolto assoluto chiusa in un silenzio pesantissimo. Silenzio che è durato per tutta la presentazione: non una parola è stata scambiata tra vicini di posto, non un commento, non un movimento, come se tutti fossero stati trasportati in un’altra dimensione e fossero rimasti imprigionati dalla potenza delle parole di chi stava sul palco a raccontare quelle vicende drammatiche. Vicende che, forse, nessuno in un caldo pomeriggio di giovedì aveva particolarmente voglia di trovarcisi immerso, neanche quelli che il libro lo hanno comprato perché è difficile aver voglia di farsi travolgere da un dolore così profondo come quello che emergeva dai particolari narrati, eppure tutti vi si sono trovati imprigionati per un’ora e mezza.
Una splendida presentazione, però il libro non l’ho comprato.

mercoledì 15 giugno 2011

La felicità della democrazia

Sala piena ieri sera alla presentazione del libro “La felicità della democrazia di Gustavo Zagrebelsky ed Ezio Mauro (edito da Laterza), organizzata da Liberta e Giustizia, a cui ha partecipato anche Gad Lerner.
La platea era quella consueta degli eventi di Libertà e Giustizia (foto), con noti intellettuali ed esponenti della borghesia milanese; in prima fila come sempre Umberto Eco e Sandra Bonsanti.
Pochi i giovani (per lo più operatori dell’informazione) e tanti vivacissimi anziani che, nell’attesa che la presentazione cominciasse, discutevano animatamente dei risultati elettorali e referendari milanesi, delle manifestazioni di piazza (a cui tutti confermavano di esser stati presenti, da quella di febbraio delle donne fino alla festa per Pisapia) ma anche dei programmi televisivi (amati solo i canali Rainews, Repubblica Tv, Rai 3 e La7 e praticamente aboliti dal telecomando Rai 1 e Rete 4, del tutto non prese in considerazione le reti Mediaset).
All’arrivo degli ospiti illustri, le signore non si sono trattenute dal commentarne il look e grande stupore ha suscitato l’eleganza perfetta di Gad Lerner, in completo blu: «Abbiamo vinto e si sono tutti vestiti a festa!», è stato il commento di una sorridente donna anziana.
E di festa sono stati anche i primi minuti della presentazione, quando un sorridentissimo Lerner ha accennato al clima milanese delle ultime settimane, affermando che «A Milano abbiamo trovato un nesso tra il clima di felicità e la democrazia».
Lerner ha, così, ripercorso un po’ tutte le tappe che hanno portato alla vittoria di Giuliano Pisapia, dalle manifestazioni delle donne, al Palasharp di Libertà e Giustizia, alla campagna elettorale, fino alla festa di Piazza Duomo il giorno della vittoria: «E’ cambiato tutto rispetto all’inizio di maggio», ha commentato il giornalista.
Nell’introdurre il libro di Mauro e Zagrebelsky, invece, Lerner ha spostato l’attenzione sugli anni ’90 a Torino, periodo dell’inizio della carriera di tutti e tre a La Stampa e del loro rapporto con gli intellettuali di allora come Bobbio e Galante Garrone, ricordando come questi fossero già molto anziani e loro si chiedevano se, nelle generazioni successive, ci sarebbe stato qualcuno in grado di sostituirli.
Ezio Mauro ha, quindi, colto l’occasione per accennare all’azionismo, che oggi «non significa nulla ma che allora voleva dire lotta partigiana, antifascismo, opposizione alla dittatura e, in qualche caso, anche esilio». Da quel periodo, secondo Mauro sono nate le istituzioni repubblicane, quelle stesse che negli ultimi anni la maggioranza di governo ha cercato di demolire con attacchi continui, a partire dalla celebrazione del 25 aprile (data che «rappresenta un accadimento e non è una sovrastruttura ideologica», ha sottolineato il direttore di Repubblica).
Zagrebelsky – che ha fatto da contraltare ad Ezio Mauro – ha esordito facendo battute sul suo accento torinese e sul suo presunto “sguardo torvo”, per poi affermare convintamente: «credo di stare bene tra coloro che stanno in minoranza», manifestando anche un certo disagio verso la gioia incontenibile che hanno scatenato gli accadimenti delle ultime settimane, in quanto, a suo avviso, «ciò che è avvenuto non risolve il problema di cosa fare da qui in avanti: i risultati ci dicono che forse un ciclo sta finendo ma noi non sappiamo come aprire quello nuovo e non bisogna sedersi sugli allori perché se da questi eventi si creasse poi una delusione, sarebbe terribile; sarebbe addirittura molto peggio di prima».
Gad Lerner, in riferimento al caso Milano, ha ricordato come le enormi divisioni del mondo riformista abbiano pesato nella lunga egemonia della destra. In merito al libro, invece, ha citato una frase di Zagrebelsky in cui si afferma che «Il popolo è il miglior interprete del proprio interesse» e ha segnalato come quante volte sia sorto il dubbio che non fosse così, dato l’enorme peso avuto dalla propaganda televisiva berlusconiana sulle masse, rischiando però di assumere una posizione elitarista secondo cui gli ignoranti non sono in grado di governare.
Ezio Mauro ha replicato dicendo che ciò che è avvenuto lascia chiaramente intendere che il sistema politico in Italia è contendibile, ma certamente ci sono delle enormi anomalie racchiuse in Berlusconi, a partire dal conflitto di interessi, allo strapotere economico e al potere che è diventato insofferente ad ogni forma di controllo (sia questo dettato dagli organi di garanzia, sia dell’opinione pubblica e quindi della stampa, sia della Presidenza della Repubblica ecc.). Mauro ha anche denunciato l’assuefazione verso l’idea del conflitto di interessi: «agli italiani dà fastidio che se ne parli ancora, ma nel frattempo esso opera e un esempio è stata la trasmissione di Porta a Porta che la notte dei risultati referendari ha parlato di altro, mentre Vespa ha passato annate intere a campare esclusivamente di politica», ha detto con enfasi il direttore di Repubblica.
Mauro ha evidenziato anche che è vero che è stata ottenuta un’importante vittoria, ma senza lo strapotere mediatico di Berlusconi si sarebbe vinto prima e anche meglio e comunque le condizioni in cui si è disputata la gara erano diseguali. Per questo, secondo il direttore di Repubblica, è più che mai necessario liberare la Rai e consentire che eserciti davvero la sua funzione di servizio pubblico.
Gustavo Zagrebelsky ha scherzato un po’, segnalando la necessità di trovare un'altra formula per definire il “conflitto di interessi” perché in realtà si tratta di una pluralità di interessi concentrati in una persona sola, la quale però sta benissimo, mentre l’accezione “conflitto” potrebbe suscitare anche una sorta di compassione verso il soggetto che ne è portatore.
Il confitto di interessi, inoltre, secondo Zagrebelsky, riguarda le strutture profonde della nostra società, in quanto consiste nel fatto che il potere conquistato nella sfera economica venga esercitato in quella mediatica e questo genera un’influenza culturale.
In merito all’accusa di elitarismo, Zagrebelsky ha risposto che «la democrazia mette tutti sullo stesso piano, sia i colti che gli incolti, poi è compito di chi esercita le professioni intellettuali cercare di elevare tutti ad un livello di consapevolezza necessaria per avere una democrazia degna di essere rappresentativa, di alta qualità e non di massa o fanatismo».
Ezio Mauro, citando Russel, ha detto che occorre «parlare alle persone fuori dalla magia delle immagini e delle parole», segnalando che i dati elettorali manifestano che sta nascendo una domanda politica molto diversa da prima che si è creata anche un immaginario diverso: «la rete è stata la grande protagonista delle ultime campagne elettorali e quindi i giovani che hanno fatto sberleffo dei politici per come appaiono in tv e li hanno visti come le loro parodie», ha affermato il giornalista.
A proposito della comunicazione politica, Gad Lerner ha citato l’esempio di Tremonti, che tutti sanno essere un accademico, lettore e scrittore di molti libri e che, però, in pubblico, al popolo va a dire frasi tipo «il prossimo sindaco di Bologna si chiamerà Alì Babà; noi di destra che non leggiamo libri; alla destra piacciono gli agnolotti e alla sinistra piace il cus cus», per mettere in luce il modo in cui vengono considerati i cittadini da alcuni esponenti politici.
Lerner ha segnalato come ad un certo punto il “popolo” abbia creato da sé gli anticorpi e ci sia stato un rigetto verso alcune forme di espressione politica, citando le scritte su “zingaropoli” apparse sui manifesti della campagna elettorale milanese e la reazione che ne è seguita. «La classe dirigente ha cercato di assecondare il popolo nel suo peggio e questo è perché hanno un’idea offensiva della cittadinanza», ha sottolineato Lerner.
Secondo Lerner, ad incidere sulle elezioni milanesi e italiane, è stato anche il vento di rivolta che ha coinvolto i giovani dell’area mediterranea (a partire dai Paesi africani in cui il popolo si è ribellato a personaggi che sembravano inamovibili, ma anche agli “indignados” spagnoli): «E’ scattata contemporaneamente in diversi luoghi del mondo l’idea che una democrazia partecipata era attuabile».
Gustavo Zagrebelsky ha, quindi, citato Gianfranco Miglio, il quale riteneva che anche la democrazia, come ogni creatura dell’uomo, è soggetta ad un ciclo di vita limitata: nasce, si sviluppa e si corrompe quando la politica diventa il luogo dei propri affari. Secondo Zagrebelsky, attualmente, dovremmo essere giunti alla conclusione del ciclo di corruzione della democrazia ma, dato che ogni ciclo secondo Miglio dura il tempo di una generazione politica (e quindi 20 anni), non si può far finta che questo tempo non ci sia stato e che alcune persone non ne abbiano fatto parte, auspicando che gli elettori si ricordino al momento di tornare alle urne di quei deputati che hanno votato una mozione secondo cui Ruby era ritenuta dal Premier davvero come la nipote di Mubarak e non li rieleggano perché di anni ne hanno già rubati parecchi.
Ezio Mauro ha quindi ricordato la cultura alla base del berlusconismo: «Berlusconi aveva promesso la liberazione delle proprie potenzialità individuali» e il modello dominante attuale dice che la felicità sta nel privilegio, nella dismisura nella vita privata e nell’abuso nella vita pubblica, in cui le regole vengono considerate come un impaccio. Secondo il direttore di Repubblica, «il populismo ha offerto una semplificazione governante della democrazia, l’idea del tagliar corto, che è l’illusione che si accompagna alla delega perché ciò che conta è che il cittadino si faccia i fatti suoi che al governo ci pensa il leader».
In merito a Berlusconi, Mauro ha segnalato che secondo alcuni sondaggi il suo apice è stato con il discorso del 25 aprile 2009 ad Onna, quando un partigiano gli ha messo addosso un fazzoletto rosso, mentre il suo declino è cominciato subito dopo con l’esplosione del caso di Noemi Letizia e la denuncia di Veronica Lario sulle candidature delle giovani donne al Parlamento Europeo.
Zagrebelsky ha manifestato il suo disgusto verso il discorso di Onna, in quanto falso sotto ogni punto di vista: «non lo ha neanche scritto Berlusconi e noi abbiamo bisogno di verità nella comunicazione politica mentre lui si appropria di cose non sue come il fazzoletto rosso partigiano e poco tempo dopo, in Parlamento, il fazzoletto verde leghista», ha affermato l’intellettuale, evidenziando che il leader si pone a simbolo di qualcosa.
Gad Lerner, in chiusura di serata, è tornato sugli eventi milanesi e ha ricordato l’emozione di vedere Benedetta Tobagi sul palco della manifestazione in piazza Duomo a sostegno di Pisapia, dopo l’attacco che aveva fatto Letizia Moratti su Sky: «L’assassinio di Tobagi è stato usato più volte per esasperare le divisioni della sinistra italiana ed era importante che quel nome tornasse su un palco di sinistra», ha affermato il conduttore dell’Infedele, segnalando anche come i vari Tognoli, Tabacci e Borghini, uniti attorno a Pisapia abbiano dato l’impressione del superamento della spaccatura che c’è stata e dell’apertura di una nuova fase.
Anche Ezio Mauro ha concordato sul fatto che oramai è tempo di unificazione di tutti i riformismi, soffermandosi sul fatto che con quella parola, a sinistra, si è fatto un po’ da paravento perché non è mai stato fatto il rendiconto dell’esperienza comunista. «Milano è stata la capitale spirituale dell’avventura politica berlusconiana, è stata un soggetto attivo e ispiratore e qui c’è stato il primo grande scossone che ha importanza per tutto il Paese», ha sottolineato Mauro, ricordando anche, però, che senza la forza dei partiti non si sarebbe vinto e che «il movimento ha sovrastato l’antipolitica, di cui il capostipite è Bossi che invitava a non votare al Referendum mentre Maroni e Zaia ci andavano». In merito alla questione del leader e alle sue provenienze, Ezio Mauro ha detto che «non è importante da dove viene ma conta dove va».
 

martedì 14 giugno 2011

Italia e Europa per la Strategia 2020

Aula affollata all’Università Bocconi per il convegno “Quali riforme per la crescita? Italia e Europa per la Strategia 2020” a cui hanno partecipato importanti personalità dell’economia.
Ad aprire i lavori è stata la relazione di Mario Monti, il quale ha ripreso parte di ciò che aveva scritto nell’editoriale sul Corriere della Sera Una strategia per la crescita dell’1 maggio. Editoriale che ha fatto un po’ da base ai discorsi di tutto il convegno. 
Piergaetano Marchetti, Presidente RCS Media Group, ha evidenziato i meriti del Corriere della Sera nel tenere accesi i riflettori sull’Europa. In merito all’argomento del dibattito, ha sottolineato l’importanza della Strategia Europa 2020 in quanto permette di inserire le riforme dei singoli Paesi in una visione globale coordinata.
Lucio Battistotti, Direttore della Rappresentanza in Italia della Commissione Europea, ha ricordato i passi avanti fatti dalla Strategia Europa 2020 rispetto al Trattato di Lisbona, segnalando come quello sia «praticamente fallito perché assomigliava un po’ al libro dei sogni» ed inoltre, in questa nuova strategia, si tende a dare un modello inclusivo e attento alla coesione sociale, molto diverso da quello liberista.
Anne Bucher, Direttore della Direzione Riforme Strutturali e Competitività della DG ECFIN della Commissione Europea, ha illustrato, con un’ampia presentazione, alcuni dei grandi problemi italiani rispetto agli altri Paesi europei e la necessità che vengano messe in atto alcune misure per il consolidamento del sistema fiscale, l’aumento della competitività, il sostegno e gli investimenti nei settori di ricerca & sviluppo e innovazione, ma anche una particolare attenzione deve essere data al mercato del lavoro, ancora troppo diseguale (in cui i giovani sono penalizzati rispetto agli adulti, i contratti sono troppi e quasi tutti per tipologie inquadrabili nel parasubordinato, senza contare le aziende familiari che attuano una sorta di protezionismo).
Ferruccio De Bortoli, Direttore del Corriere della Sera, che moderava l’incontro, ha ricordato che per mettere in atto tutte le raccomandazioni suggerite dalla Bucher sarebbe necessario avere un governo forte e stabile, che attualmente (soprattutto dopo le due tornate elettorali avute) non c’è. De Bortoli ha espresso perplessità anche per il modo in cui il governo ha varato il Piano di riforme nazionale: «sembrava fatto controvoglia, quasi giustificandolo come una misura da fare perché altri lo chiedono ma di fatto l’agenda non c’è», ha affermato il direttore del Corriere della Sera.
Stefano Micossi, Direttore Generale Assonime, ha messo in luce le novità di alcune politiche europee ma ha anche espresso grande preoccupazione per l’esito del referendum, nel merito dei contenuti di indirizzo politico che proponeva. Micossi ha precisato che quando agli italiani sono state spiegate bene le riforme, argomentando con precisione costi e benefici, i cittadini non si sono tirati indietro dal fare sacrifici, mentre forse ora è mancata l’attenzione a spiegare alcune decisioni intraprese.
L’Unione Europea, oggi, secondo Micossi, pone dei vincoli di sorveglianza sui disavanzi eccessivi e sugli squilibri e questo, al di là dei governi in carica, crea delle condizioni esterne molto stringenti che devono essere rispettate.
Accanto al riequilibrio dei conti pubblici (fatto attraverso il controllo della spesa, allargando la base imponibile e eliminando i sussidi dannosi), per Micossi, occorre una strategia macroeconomica che corregga gli squilibri per realizzare quella che gli economisti chiamano “area economica ottimale”.
Critiche sono giunte da Micossi al sistema bancario che, spesso, fa da freno e c’è difficoltà a reperire credito, mentre l’Europa su questo terreno ancora sta prendendo tempo.
Positivo, invece, per Micossi il fatto che torni al centro delle strategie la riforma del mercato del lavoro; ambito in cui, a suo avviso, è utile seguire la flex security perché «per aprire le porte all’ingresso, occorre aprirle all’uscita».
Sulla Direttiva dei Servizi proposta dall’Unione Europea, Micossi ha segnalato un cambio di impostazione che obbliga i Paesi membri a redigere una lista delle restrizioni in essere. Oggi, tuttavia, c’è una resistenza molto forte all’attuazione del mercato interno – ha segnalato Micossi – per paura delle ricadute sui servizi.
Antonio Spilimbergo, Economista presso il Fondo Monetario Internazionale, ha segnalato come l’Italia – contrariamente ad altri Paesi dell’Unione – non è cresciuta e, a suo avviso, non può esserci un consolidamento fiscale senza crescita.
Spilimbergo ha chiesto se ha ancora senso parlare di riforme strutturali per i singoli Paesi, quando, andando ad analizzare i dati, si può vedere come tutto sia ormai riconducibile a grandi “macroregioni”. In Italia è utile aumentare il Pil al Sud per portarlo ai livelli degli altri Paesi, ma è anche necessario che ripartano le regioni del Nord che, invece, si sono fermate. In Italia, le varie differenziazioni creano immobilismo, mentre l’Unione Europea, con i suoi vincoli, fa da sprone perché le cose si muovano e, questo, può essere anche di aiuto per ottenere il consenso verso determinate politiche, che la disomogeneità italiana non consente.
Tito Boeri, Professore Ordinario Università Bocconi, in apertura del suo intervento, ha messo in luce il fatto che, mentre molti Paesi europei, pensando allo scenario del 2020, fanno piani di crescita, l’Italia immagina di tornare a livelli di reddito che c’erano prima della crisi (circa indietro di 15 anni, quindi), senza alcuna previsione di sviluppo. Boeri ha poi polemizzato sulla stesura dei documenti italiani: 100 pagine per il Piano Nazionale delle Riforme, con molteplici riferimenti a norme e leggi (alla faccia della semplificazione) e poca chiarezza.
Per Boeri, dato che l’Europa chiede un aggiustamento di 3 punti del Pil da qui al 2014, se non si vogliono aumentare le tasse, bisogna intervenire sulla spesa corrente: «per avere + 3% di Pil, occorre tagliare a -6% la spesa. Se il governo vuole fare questo senza toccare le pensioni, vuol dire incidere su sanità, giustizia, istruzione… arrivando a tagli del 12%, ma le riforme strutturali possono rendere i tagli meno onerosi».
Boeri ha accusato la classe politica di utilizzare spesso la scusa che non ci sono fondi per fare le riforme, mentre alcune si potrebbero fare a costo zero, come ad esempio quella del mercato del lavoro: «l’Unione Europea dice di decentrare la contrattazione ma istituendo un salario minimo lo si fa; così come contro la segmentazione bisogna unificare i contratti e l’ingresso al mondo del lavoro, dando le protezioni necessarie ai giovani che entrano», ha affermato Boeri.
Un’altra necessità, secondo Boeri, è quella di rendere stabili gli incentivi perché le aziende che devono fare investimenti necessitano di lunghi periodi, altrimenti non li fanno.
Per Stefano Grassi, Direzione del coordinamento politico ed Europa 2020, Segretariato Generale, Commissione Europea, occorre ampliare il campo visuale delle riforme dall’Italia all’Europa: le specificità nazionali non vanno contrapposti ai punti in comune dell’area Euro ma occorre farli convergere.
Secondo Grassi le programmazioni nazionali di riforme funzionano meglio quando nascono dal confronto tra le parti e non quando vengono imposte ed ha preso ad esempio il patto di stabilità, rispetto al Trattato di Lisbona che invece sembrava il libro dei sogni.
Grassi ha segnalato, però, che in tutti i programmi di riforma c’è poco spazio all’innovazione (green economy) mentre c’è molta attenzione data ai conti pubblici, probabilmente anche a causa della congiuntura economica non favorevole che si sta attraversando.
Grassi ha ricordato anche che è sempre Bruxelles ha farsi carico delle riforme più impopolari e mai i singoli Stati.
Il problema dell’Unione Europea, secondo Grassi, è dato dalla stagnazione della produttività (che prima si riusciva a compensare con l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, ma oggi questi restano disoccupati e si investe poco in formazione), di qui la necessità di trovare delle politiche adeguate a rilanciarla.
Franco Bruni, Professore Ordinario Università Bocconi, ha detto che l’Unione Europea giudica il piano di riforme italiano non abbastanza ambizioso e, in parallelo, ha lanciato un pacchetto di cambiamento della governance che è molto ambizioso. L’Europa lega la finanza pubblica alle riforme strutturali, mentre in Italia questo è ancora marginale.
Rispondendo a Boeri, Bruni ha segnalato che non sono sufficienti le riforme a costo zero, ne servono altre ma è difficile realizzarle avendo poca elasticità di bilancio, perché servono investimenti (oltre che consenso politico).
Bruni ha sottolineato però la possibilità di invertire il rapporto tra riforme e consenso e ha espresso la necessità di costruire quest’ultimo attorno delle proposte di riforme, attraverso marketing, politica, comunicazione, chiarezza nella spiegazione di cosa si intende fare e partecipazione dei cittadini; quindi non fare passare le riforme come un formale adempimento tecnico o come un qualcosa di imposto da altri che vedono il governo sulla difensiva.
Bruni ha segnalato la necessità – poco evidenziata nella Strategia Europa 2020, a parte per le risorse ambientali – di prestare attenzione all’importanza dei beni pubblici, i quali non significano solo buona amministrazione della cosa pubblica. Bruni ha quindi contestato la cultura egoistica tipica del nostro tempo, secondo cui conta solo ciò che avviene a noi dentro casa nostra e il resto diventa poco importante.
Una critica forte è stata espressa da Bruni anche verso il liberalismo, ricordando che era nato in un periodo in cui il popolo cercava di difendersi dai potenti che detenevano in mano ogni cosa, mentre ora i beni pubblici vanno difesi dai privati e quindi occorrono delle regole e queste sono il terreno della politica.
Le conclusioni del pomeriggio di convegno sono toccate a Guido Tabellini, Rettore Università Bocconi, il quale ha ricordato come le disomogeneità nel territorio nazionale ci siano sempre state, ma in precedenza le regioni riuscivano comunque a crescere. La riforma fiscale, secondo Tabellini, è un passaggio fondamentale e l’unica via è quella di ridurre il peso fiscale sul lavoro spostandolo sui consumi e sulle rendite finanziarie.
In merito alla tanto contestata Strategia di Lisbona, Tabellini ha ricordato che voleva essere uno stimolo alla crescita ma poi non ha avuto effetti sulle politiche nazionali, mentre ora l’Unione Europea prende posizione con maggiore forza e accompagna le raccomandazioni con delle sanzioni per chi non rispetta i vincoli.
Il pubblico, quasi eslusivamente di addetti ai lavori e illustri personalità dell'economia e del mondo del lavoro, ha mostrato di apprezzare le discussioni in campo; un po' diversa l'opinione di alcuni studenti che erano in aula e che invece avrebbero gradito maggior dibattito, mentre hanno segnalato che ciascuno si è presentato ad esporre la propria tesi e le proprie ricette, senza un reale confronto.

lunedì 13 giugno 2011

La giunta di Pisapia

Sembrava tutto troppo bello per essere vero: Milano conquistata da Pisapia, la giunta nuova arrivata con tanto di parità di genere e l’avvio di un nuovo percorso per la città, come auspicano i cittadini.
E invece no, qualcuno deve cominciare a pestare i piedi, senza troppi motivi validi.
Chi? Roberto Cornelli il segretario provinciale del Partito Democratico a Milano. Persona importante, rispettabilissimo e apprezzatissimo sindaco a Cormano e anche ottimo docente universitario, esperto di criminologia e problematiche della sicurezza ma che – spiace dirlo – come segretario metropolitano qualche perplessità la suscita.
Gli ottimi risultati ottenuti dal Partito Democratico a Milano a questa tornata elettorale (più per merito di alcuni candidati che non del partito stesso, a dire il vero) avevano fatto accantonare tutti i problemi pregressi e ci si era uniti in una festosa euforia da vittoria che aveva permesso anche di non dare troppo peso ad alcune scelte poco opportune (come quella di non farsi neanche vedere a salutare i propri elettori durante la festa per Pisapia in piazza Duomo il pomeriggio della vittoria per cedere il palco ad altri esponenti di altri partiti), ma evidentemente i dirigenti locali sono recidivi nei loro errori.
A giunta fatta, con tanto di validi assessorati conquistati dagli eletti del Partito Democratico (Majorino al Welfare, Maran alla mobilità e ambiente, Granelli alla sicurezza, Boeri alla cultura con delega sull’Expo) nonché il ruolo di vicesindaco assegnato a Maria Grazia Guida; Roberto Cornelli ha pensato bene di protestare per l’assegnazione di un incarico a Tabacci (Api) appellandosi alle stesse motivazioni dell’Italia dei Valori, ovvero il doppio incarico.
Motivazione giustissima, soltanto che, mentre l’Idv protesta perché pur essendo una lista che ha sostenuto la candidatura di Pisapia non ha avuto nulla (del resto non ha preso neanche molti volti), il Partito Democratico ha avuto molto e questo andare a rompere le scatole è un po’ pretestuoso.
Non che la nuova giunta sia perfetta, alcune scelte suscitano perplessità (non tanto nelle persone che sono indubbiamente tutte meritevoli, quanto nell’assegnazione degli incarichi), ma ha una sua logica di fondo.
Il Pd voleva Boeri vicesindaco scrive Il Giornale. Ipotesi molto probabile, anche in virtù dei tantissimi voti presi da Stefano Boeri, ma Pisapia aveva annunciato subito dopo la sua vittoria di volere una donna come vice (decisione che va tanto di moda) e anche alcune componenti dei democratici, all’inizio, si erano espresse favorevolmente in tal senso. Non è colpa di Pisapia se poi le donne a cui si è rivolto o di cui si è fatto i nomi (Adamo, Pollastrini, Toia) non erano disponibili perché già elette in altri ruoli a cui non avevano intenzione di rinunciare (e il vicesindaco è un ruolo un po’ complesso da gestire con doppio incarico). Pisapia ha fatto la scelta più ovvia, andando a prendere una figura in vista come Maria Grazia Guida, cattolica e quindi in qualche modo in grado di fare da contraltare all’immagine di “uomo di sinistra estrema” che gli hanno attribuito durante la campagna elettorale, e che era in lista con il Pd (anche se certamente di voti non ne ha presi poi moltissimi e non è una figura rappresentativa del Partito Democratico).
In merito a Stefano Boeri, forse tutti si aspettavano Expo o urbanistica, dimenticando che il noto architetto ha perso le primarie anche perché molti non volevano votarlo proprio per il suo conflitto di interessi sull’urbanistica e per le vicende legate all’Expo (di cui è espertissimo e spiace che non possa mettere a frutto a pieno le sue competenze ma un segnale di discontinuità Pisapia, evidentemente, vuol darlo).
Di tutte le altre poltrone democratiche, quella più azzeccata sembra essere quella ottenuta da Pierfrancesco Maran.
Curioso infatti che Marco Granelli, da tempo noto per il suo impegno nel mondo dell’associazionismo e del volontariato cattolico, sia stato messo a gestire la sicurezza (anche se ufficialmente figura come “Sicurezza e coesione sociale, Polizia locale, Protezione civile, Volontariato”… una definizione un po’ surreale, per dirla con un eufemismo). Così come una qualche perplessità l’ha suscitata la sua prima dichiarazione da assessore che, dalle pagine di Repubblica, ha detto di voler valorizzare il ruolo del volontariato: parole giustissime e meritevoli ma forse Granelli non ha ben chiaro che i milanesi, da chi gestisce la sicurezza, si aspettano appunto sicurezza e non altro.
Stessa problematicità per Pier Francesco Majorino al welfare che ha dichiarato a Repubblica “Chiamerò gli artisti”… Viene da chiedersi “a fare che?” dato che il suo ambito è “Politiche sociali e servizi per la salute”.
Però tutte queste scelte non sono state fatte a caso, c’è una logica di Pisapia ben precisa che va al di là dei singoli interessi personali degli assessori (si capiva bene che l’aspirazione di Majorino era la cultura, di Granelli il welfare e di Boeri qualcosa di più) e che tiene conto della necessità di non creare conflitti di interessi. Lo si nota molto bene anche con altri assessori non Pd, che sostanzialmente hanno le stesse situazioni di “poca pratica” con il campo loro affidato. Questo forse rischia di creare qualche problema sulle competenze ma, essendo anche una giunta di persone prevalentemente giovani, si presume che siano più duttili di mentalità e quindi più facilmente ricollocabili nei nuovi ambiti rispetto a ciò di cui si sono sempre occupati.
Così come una scelta precisa del sindaco è stata quella di non farsi incastrare negli equilibrismi dei partiti, rivendicando da subito una sua autonomia. Scelta questa che dovrebbe aver intrapreso intanto mirando ad un’idea di linea politica che intende mettere in atto ma poi anche alla solidità della giunta stessa e al garantire la governabilità (di qui la decisione di coinvolgere il centrista Tabacci, che inizialmente era stata accolta favorevolmente anche dal Pd).
Essendo Cornelli un uomo di “ area Bersani”, lo inviterei a seguire il consiglio del segretario nazionale di non stare a guardarsi l’ombelico o la punta delle scarpe: abbiamo vinto, abbiamo preso tanti voti, abbiamo ottenuto dei buoni assessorati, hanno preso incarichi le persone che per voti e per esperienza potevano prenderli; cerchiamo di far funzionare bene ciò che abbiamo ottenuto e non andiamo a protestare sui giornali per problemi che - per quanto reali - non dipendono da noi.
Questo, ovviamente, non giustifica Tabacci, che in realtà farebbe bene a non sminuire il problema del doppio incarico (come ha fatto nell’intervista a Repubblica di questa mattina) perché sarebbe opportuno che chi è dedito alla cosa pubblica si occupasse di gestirla bene e non di collezionare poltrone, ma l’approccio con cui va affrontato è certamente diverso dalle proteste sulle pagine dei giornali, soprattutto in questo momento.
 
La giunta di Giuliano Pisapia, Sindaco
Partecipate, Innovazione, Risorse umane e organizzazione, Giovani, Agenda digitale, Sistemi informativi, Avvocatura, Facility management, Comunicazione, Sistema di gestione della qualità

Maria Grazia Guida, Vice sindaco
Educazione e Istruzione, Rapporti con il Consiglio comunale, Attuazione del programma

Assessori
Daniela Benelli
: Area metropolitana, Decentramento e municipalità, Servizi civici
Chiara Bisconti: Benessere, Qualità della vita, Sport e tempo libero
Stefano Boeri: Cultura, Expo, Moda, Design
Lucia Castellano: Casa, Demanio, Lavori pubblici
Franco D'Alfonso: Commercio, Attività produttive, Turismo, Marketing territoriale
Lucia De Cesaris: Urbanistica, Edilizia privata
Marco Granelli: Sicurezza e coesione sociale, Polizia locale, Protezione civile, Volontariato
Pierfrancesco Majorino: Politiche sociali e servizi per la salute
Pierfrancesco Maran: Mobilità, Ambiente, Arredo urbano, Verde
Bruno Tabacci: Bilancio, Patrimonio, Tributi
Cristina Tajani: Politiche per il lavoro, Sviluppo economico, Università e ricerca
 
Organi di Garanzia
Valerio Onida:
Autorità per le Garanzie civiche (partecipazione e trasparenza). Si avvarrà della collaborazione dell’Avv. Umberto Ambrosoli

Piero Bassetti: Consulta per l’internazionalizzazione del Sistema Milano

giovedì 9 giugno 2011

4 Sì per il referendum del 12-13 giugno

Al referendum del 12-13 giugno io voto 4 sì, per l'acqua pubblica, contro il nucleare e perché tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge.
Poco mi importa del dibattito che si è acceso sui giornali in questi giorni in merito a presunti vizi di "posizioni ideologiche": sarò ideologizzata ma l'acqua è un bene indispensabile e non è accettabile che finisca in mano a società private (che hanno necessità del profitto per sopravvivere) e farebbero aumentare le bollette, non è pensabile un futuro di centrali nucleari dopo i disastri che abbiamo visto e anche la mancanza di risposte in merito alla gestione delle scorie e i politici non devono diventare al di sopra delle leggi valide per tutti gli altri grazie ad escamotage ad personam.
Il 12-13 giugno andate a votare perché è un diritto a cui è bene non rinunciare. Andateci. Andateci quando vi pare, meglio se arrivate presto, ma comunque l'importante è che arriviate prima della chiusura dei seggi (non fate i fenomeni dell'ultimo secondo che poi puntualmente arrivano quando gli scrutatori, stravolti dalla giornata, hanno appena messo i sigilli e chiuso la porta).