giovedì 31 marzo 2011

Tre giorni con Area Dem a Cortona

C’è una Cortona diversa dai soliti incontri di Area Dem nella mia memoria, questa volta. Sono stati tre giorni intensi di lavoro, di riflessione politica ma anche di tanto divertimento, perché alla fine ho deciso di buttarla sul ridere.
Quando ho scelto di partecipare, l’ho fatto con l’intento di staccare un po’ da Milano, poi mi hanno detto che avrei dovuto lavorare: fare qualche intervista per il sito di un’associazione legata ad Area Dem milanese. Nulla di impegnativo, ma quella di Cortona era un’occasione unica per avere tanti personaggi di spicco della politica e non si poteva perdere, quindi l’obiettivo era cercare di portare a casa più registrazioni possibili e magari su argomenti non a scadenza ravvicinata, in modo da pubblicarle dilazionate nel tempo.
Appena arrivata al centro congressi, ho cominciato a cercare gli amici: il bello di questi incontri è che, dopo essersi scritti per mesi sulle bacheche di facebook, finalmente ci si può rivedere e scambiare quattro chiacchiere di persona.
In sala c’era molta più gente del solito e, complice il fatto di avere in programma dibattiti con personalità diverse, si vedevano anche tante facce nuove. I milanesi, anche in questa occasione, sono arrivati in massa dai dirigenti del Pd alla base.
Tra i primi arrivi, Pina Picierno, sempre bellissima e con cappellini stupendi ma, a differenza delle precedenti edizioni di Cortona, ha smesso di girare con lo zaino Invicta per passare alla borsetta. Anche Francesca Puglisi era bellissima, con minigonna e scarpe fini dai tacchi altissimi.

In sala c’era molta curiosità per la tavola rotonda tra Casini (arrivato in maglione), Bertinotti e Franceschini (stranamente in giacca, ma con dei calzini rigati fantastici che ho cercato tutto il tempo di fotografare, senza successo perché la mia macchina fotografica negli interni poco illuminati non funziona bene).
Bertinotti sembrava venire dalla luna: non sapeva cosa dire, parlava a vanvera, iniziava con un tentativo di risposte alle domande poi si perdeva su temi che non c’entravano nulla e non la finiva più. Peccato: ero molta curiosa di ascoltarlo, in televisione è più preciso nelle risposte e anche interessante (seppur portatore di un messaggio politico ormai superato). Casini faceva un comizio e si conquistava gli applausi parlando male di Berlusconi e del governo.
Il risultato, intenzionale credo, è che è apparsa una sinistra ormai morta (incarnata dal povero Bertinotti, riesumato per l’occasione e di cui nessuno sentiva la necessità, dato che il vero interlocutore politico rappresentante della sinistra oggi è Vendola), che finiva per far risaltare un terzo polo (rappresentato da Casini, a cui veniva concesso un comizio, senza che alcuno facesse notare le contraddizioni delle sue azioni politiche) che in realtà non è nemmeno definito. In tutto questo il ruolo di Franceschini non era altro che quello di aver portato una bella platea e di fare da spalla perché la rappresentazione riuscisse, e magari convincesse anche i presenti in sala che l’alleanza giusta non può prescindere dal terzo polo.
Nulla di male, le tecniche di comunicazione insegnano ad invitare i soggetti in base al messaggio che si vuol far passare, però è ben evidente che a sinistra del Pd, oggi, c’è Sel con Vendola e non Bertinotti e andare ad invitare Bertinotti è decisamente anacronistico e mette in luce anche una certa paura che il Pd ha di Vendola e della sua narrazione in grado di strappare applausi facili. Che sarebbe successo se a dialogare con Casini e Franceschini ci fosse stato Vendola? Come avrebbe fatto Casini a fare l’antiberlusconiano se è andato a braccetto con Berlusconi fino a ieri? Inoltre, Vendola non è stupido e da tempo dice di non esser precluso al terzo polo, ma che ne sarebbe stato se di fronte a questa ipotesi, Casini avesse detto di no? Il tentativo di coinvolgere il centro nell’alleanza elettorale probabilmente sarebbe morto sul colpo, però, a volte c’è bisogno di rischiare e, se si vuole parlare del futuro, forse è il caso di non invitare a farlo personaggi trapassati.
Finito il dibattito (lentissimo) sono andata a salutare Bertinotti, attorniato da telecamere e anche qualche ammiratore. Gli ho detto che ero molto felice di incontrarlo (stavo per dirgli anche che ero venuta a Cortona con una sciarpa di Cashmere per essere adeguata, ma mi sono trattenuta) e lui mi ha fatto un sorriso largo, stringendomi la mano.
Subito dopo il simpatico trio, ha preso la parola Bersani (arrivato con lo staff al completo, tra cui persone che lì non gli servivano affatto), il quale, tra una sviolinata e l’altra a Franceschini (compreso il riconoscimento ad Area Dem, che di per sé è un fatto positivo ma poi bisogna vedere cosa implica), ha illustrato il suo pensiero sul partito e sulla strada da intraprendere.
I posizionamenti in sala e fuori sala dei giovani assistenti parlamentari erano ben evidenti e anche piuttosto stucchevoli: queste scene si vedono solo a Roma, dove si concentra il “potere”, altrove non esiste questa “caccia al politico” di valore.
Personalmente trovo sempre un po’ strano anche il modo in cui i giovani assistenti parlamentari nascondano con cura la loro attività, come se fosse un segreto da non dire. Non è la prima volta che capita e francamente ne comprendo poco i motivi: di solito è un lavoro appassionante, non c’è nulla di male a farlo (l’unica cosa negativa che spesso loro sottolineano è l’assenza di contratti regolari perché la legge prevede una procedura diversa per quei ruoli). Personalmente non ho alcun problema a dire per chi lavoro, anzi, ne vado orgogliosa, e credo che il confronto con chi fa lo stesso mestiere possa essere utile per cercare di migliorarsi.
I lavori del sabato sono stati più concentrati sul dibattito interno in Area Dem e il tutto è stato molto vivace: seguendo gli interventi, si registravano punti di vista molto differenti anche tra di noi, segno che tutto quello che abbiamo passato negli ultimi mesi non ci ha lasciati indenni e c’era bisogno di chiarirci un po’.
Dario Franceschini è entrato in sala attorniato da donne, si è fermato sul fondo con il suo gruppo, ridevano, chiacchieravano, si sono fatti una foto e soprattutto facevano un po’ di confusione, tanto che sono stati richiamati da Marina Sereni, suscitando risate generali.
Suscitava molta curiosità la presenza in sala di Paolo Gentiloni ; non sapevamo se era venuto di sua iniziativa o se era stato invitato ma ci sembrava l’inizio di un’apertura e, invece, ci sbagliavamo: era venuto a tirarci una legnata, a contestare ogni cosa che abbiamo fatto e detto, pure la scritta che pubblicizza la proiezione del film “Silvio forever” che saremmo andati a vedere in serata e che veniva proiettata sullo schermo.  
Nel pomeriggio, in sala continuava ad andare in scena il post-Gentiloni: a nulla è valso il richiamo di Debora Serracchiani nella mattinata di uscire dagli schemi dei vecchi partiti perché altrimenti i nuovi si stancano e se ne vanno; i popolari si ribeccavano ancora. Sono mesi che i popolari litigano in ogni luogo, dai giornali, alle direzioni, ai convegni… Sono mesi che il dibattito interno è caratterizzato dal loro problema che, per chi viene da un’altra parte (come me) o per chi non viene da nessuna parte, è davvero scarsamente comprensibile e comincia anche ad essere seccante. Dobbiamo andare avanti ancora per molto a osservarli mentre litigano di evento in evento sempre sugli stessi punti? Possibile che non ci sia un modo per trovare un accordo o per accettare di essere su posizioni differenti e farsene una ragione? La scissione dei 75 aveva sancito una certa diversità di pensiero, non c’è bisogno di andare a litigarci sopra ogni volta. Marini , in un lunghissimo intervento in chiusura di giornata, è stato quello che ci è andato più pesante sia con il gruppo di Gentiloni che con i rottamatori. Il suo discorso è stato un capolavoro di tempo perso che ha finito per dare risalto proprio alla polemica tra i popolari. L’intervento di Gentiloni sicuramente meritava una risposta, ma forse era il caso di dargliene una più sintetica, anche per non ingigantire il problema e non monopolizzare la giornata ricca di riflessioni molto variegate su un unico tema, oltretutto non proprio felice. Invece, Marini ha fatto l’esatto contrario, con il risultato che sui giornali del giorno successivo, della nostra bella giornata cortonese, è arrivata esclusivamente la polemica tra i popolari.
Personalmente credo che i problemi vadano affrontati e quindi è giustissimo prendersi degli spazi per discutere ma poi però occorre anche arrivare ad una soluzione, invece qui ci trasciniamo da mesi sulle stesse questioni e francamente, vedere un’area variegata come la nostra, che da mesi impiega i suoi luoghi di dibattito per concentrarsi sul problema di una parte (che oltretutto non è nemmeno la mia), inizia un po’ a stancare. Inviterei i litiganti a pensarci a quello che stanno facendo.
Finito l’intervento di Marini ci siamo diretti al Teatro Signorelli per la proiezione del film “Silvio forever”.
Sembravamo ragazzini in gita.
Ci siamo mossi in massa e la gente dalle vetrine dei bar ci guardava incuriosita.
Entrati a teatro e vista la meraviglia di quel luogo bianco e rosso con tutti i palchi, ci siamo scatenati: dopo la corsa ai posti, è cominciato lo scatto delle fotografie da parte a parte, il chiamare gli amici e farsi segnali. A me sembrava di stare dentro al film Johnny Stecchino.
Personalmente, ho notato con un certo stupore alcune dinamiche di “posizionamento”, che avevo già notato in sala al Centro Congressi: segno che sono cambiate un po’ di cose.
In ogni caso, è stato tutto molto buffo e tutti abbiamo gradito l’idea dell’organizzazione di regalarci questo momento di svago.
Peccato per il film, davvero inutile e anche controproducente per la nostra parte politica. Personalmente, trovo che sia un film incompleto dal punto di vista narrativo (manca completamente il Berlusconi cupo degli ultimi anni, le sue frasi dure di attacco a magistratura, stampa, opposizioni) e dal pessimo montaggio (non evidenzia per niente i contrasti delle uscite berlusconiane, racconta solo il suo lato ilare).
Di dubbio gusto poi la scelta di enfatizzare il mausoleo di Arcore che, è vero, fa una certa impressione, però, tutto sommato è un affare privato. Berlusconi, a parte un paio di passaggi, ne esce bene da quel film: è un soggetto simpatico, divertente e anche le sue malefatte non appaiono così gravi. Emerge molta attenzione al ruolo giocato dal conflitto di interessi, che certamente è stato determinante nel suo successo elettorale, ma forse un montaggio diverso avrebbe aiutato a comprenderlo meglio.
La narrazione è piatta e le scene così giustapposte, non fanno comprendere un bel niente.
L’opposizione appare minimamente e non Pd. Di per sé non sarebbe nemmeno rilevante: è sufficiente Berlusconi a spiegare se stesso, ma in ogni caso, anche a voler raccontare le opposizioni, si può fare molto meglio. Stupisce che a fare un prodotto così scarso narrativamente siano stati due giornalisti che, invece, dovrebbero saper raccontare per mestiere.
La domenica mattina, a colazione, ho appreso che finalmente era arrivato David Sassoli e che a cena era stato sfrattato da Erminio Quartiani in attesa del secondo turno.
Il dibattito della mattinata è stato rapido e in crescendo. Ho fatto in tempo a registrare un’ultima intervista a Castagnetti e mi è sfuggito Giacomelli (altro politico da recuperare).
La sala era pienissima ancora: non c’è dubbio che dal punto di vista delle presenze questo incontro di Cortona sia stato un vero successo, con gente nuova arrivata tutti i giorni, per fino la domenica mattina solo per le conclusioni.
Conclusioni che Dario Franceschini ha tracciato egregiamente.
Personalmente, dopo la vivacità e la diversità dei punti di vista registrata nei tre giorni, sentivo l’esigenza di qualcuno che tirasse le somme, anche in merito alla discussione interna e Franceschini lo ha fatto molto bene, toccando tutti i punti salienti e rilanciando il ruolo di Area Dem. Chiuso il capitolo interno, Franceschini è passato ad illustrare il nostro rapporto con il resto del Pd e poi la prospettiva per l’esterno (in cui le posizioni sono ormai ampiamente note) e il rapporto con il Paese. Insomma, quelle di Franceschini sono state delle conclusioni vere dei tre giorni di incontro e sono state davvero molto utili per fare chiarezza sulla strada che Area Dem intende intraprendere.
 
Alla fine è scattata la corsa ai saluti, con la fuga di chi aveva il treno imminente e le chiacchiere di chi poteva fermarsi. È finita così la splendida gita di primavera in Toscana con il gruppo di Area Dem. È iniziata che non avevo una gran voglia di andarci ed è finita che, come sempre, non volevo più tornare a casa. Sono stati tre giorni bellissimi, intensi, di riflessioni politiche, chiacchiere, risate, lavoro e tanta voglia ridere.

 
AreaDem a Cortona - marzo 2011

domenica 20 marzo 2011

Il partito nuovo non c'è

Rinnovamento è una parola che ogni tanto torna fuori nel dibattito interno al Partito Democratico. Prende forme diverse a seconda del personaggio che, di volta in volta, sembra ergersi ad incarnazione di quel concetto. Un’espressione del rinnovamento è stata la “giovane” Debora Serracchiani, diventata famosa per le sue sparate contro l’apparato ma che poi ha cambiato metodo perché deve aver capito che, al di là della simpatia della gente e di qualche buon titolo sui giornali, non le avrebbero reso vita facile dentro al Pd. Espressione del rinnovamento o della “rottamazione” è stato di recente anche Matteo Renzi, il quale se ad un certo punto sembrava aver ammorbidito i toni, poi ha scelto di rialzarli perché ha capito che tutto sommato gli fa ancora comodo così. In entrambi i casi si tratta di persone mediamente giovani di età, almeno rispetto al resto dei rappresentanti del Pd.
È curioso, invece, che in questi ultimi giorni, si voglia far portavoce del rinnovamento anche un soggetto che giovane non è (né per politica né per età) quale Giuseppe Fioroni.
Fioroni, nella rivista Il Domani d’Italia, appena lanciata in rete, scrive un articolo intero dedicato al rinnovamento, ponendo una domanda di fondo: “E la prima domanda che onestamente dobbiamo farci è: possiamo pensare che il domani, dopo Berlusconi, sia rappresentato da un centrosinistra che invece ha le stesse facce di ieri? O non è forse arrivata l'ora anche per noi di avere coraggio? Sappiamo che entro un congruo numero di mesi avremo davanti a noi la sfida più importante: archiviare Berlusconi senza esserne archiviati anche noi”.
La domanda non è sbagliata, ma lascia emergere due elementi di fondo: 1) Berlusconi, 2) la classe dirigente del Pd.
Fioroni cita Berlusconi in ogni passaggio del suo articolo, quasi come se vero il tema di fondo non fosse il rinnovamento del Pd, ma la scelta di una linea politica improntata sul cosiddetto antiberlusconismo. Opinione legittima, che oltretutto Fioroni non ha mai nascosto, ma che poco ha a che vedere con il rinnovamento del partito (come fa notare anche Debora Serracchiani, in un altro articolo), dove in realtà, i giovani sono molto più antiberlusconiani dei non giovani (Renzi a parte, guarda caso ben visto da Fioroni, vista la sua visita ad Arcore).
La classe dirigente del Pd (di cui oltretutto Fioroni fa parte e non da oggi), invece, rappresenta solo una parte del problema del rinnovamento.
Il problema del rinnovamento, infatti, non riguarda solo i vertici, anzi molto più spesso riguarda la base, intendendo per tale sia i militanti, gli iscritti, coloro che si occupano di veicolare le idee del partito sul territorio o che lo rappresentano nelle istituzioni locali (anche di basso livello), sia il bacino elettorale del Pd (la cui composizione emerge in modo piuttosto netto al momento delle primarie ma anche alle iniziative locali del partito).
Tuttavia, questo problema sembra che il Pd faccia fatica ad affrontarlo: ogni volta c’è qualcosa di più urgente, sia l’emergenza democratica in cui ci fa precipitare Berlusconi, sia la crisi economica, sia la possibilità di far cedere il governo e quindi la necessità di mostrarsi uniti di fronte agli elettori… Senza contare che il segretario Bersani è abilissimo nello svicolare i problemi, preferendo non dare risposte e lasciare passare il tempo, in modo che prima o poi svaniscano da soli e vengano messi da parte da questioni più importanti (che certamente ci sono e sono tutte più che legittime, ma non risolvono i disagi di tutt’altra natura). “Dovremmo saperlo che, quando non ci si occupa di un problema, di solito, prima o poi è il problema che si occupa di te. E occuparsene non significa soltanto mettere in segreteria un certo numero di quarantenni, o assicurare che i “giovani” saranno mandati in tv”, scrive infatti Debora Serracchiani.
Il problema è che non basta correggere la rotta e aggiustare un po’ le cose ma bisogna cambiare il sistema.
La si vede in continuazione la riproposizione del vecchio sistema, soprattutto nei momenti vicini alle elezioni, in cui c’è la necessità di formare liste elettorali. Non è colpa di nessuno, la “vecchia guardia” che porta avanti il partito è abituata a fare politica così e cerca di farlo bene, ma mantenendo la vecchia impostazione.
Debora Serracchiani, giustamente, segnala che “Innanzitutto, l’interrogativo sul rinnovamento del Pd è di fondo e di merito, e riguarda la transizione talvolta incompiuta dai partiti d’origine a quello democratico, la riproposizione all’interno del Pd di logiche proprie dei vecchi partiti, fino all’affiorare degli aspetti più preoccupanti dell’elettoralismo o del raggrumarsi di bozzoli di partito nel partito”.
Non è un problema di persone, è un problema di metodo. Le persone che ci sono cercano di agire per il meglio, secondo le loro idee e le loro abitudini. Non possono cambiare loro e non possono cambiare da soli: c'è bisogno di gente nuova che, evidentemente, non c'è e quando c’è si trova a disagio e o tace o se ne va.
Quello che manca, oggi, è la mediazione tra il vecchio e il nuovo. Troppo spesso le persone nuove (giovani o meno che siano) si trovano davanti ad una serie di imposizioni di metodo già consolidate e che nessuno intende mettere in discussione, contro le quali sembra impossibile tentare anche la più piccola modifica. Di fronte a ciò, spesso accade che o i nuovi si arrabbiano e cercano di imporre la loro voce (spesso con i toni sgraziati alla Renzi, soprattutto se sono giovani perché abituati a questo tipo di linguaggio tipico della società moderna, sempre molto urlata e poco incline alla vecchia maniera della diplomazia) oppure desistono e se ne vanno perché non si sentono più a casa (cosa che capita di frequente sia tra i giovani che i meno giovani). Dall’altra parte, sul versante della “vecchia guardia”, c’è una difficoltà enorme nel comprendere le ragioni di questo disagio e anche dei linguaggi con cui viene mostrato, classificando spesso le persone che ne sono portatori come irrispettosi, ambiziosi, indisponenti, arroganti, e finendo così per arroccarsi in una difesa a spada tratta dell’esistente, giustificata dal sentirsi minacciati e aggrediti dal nuovo che non riescono a comprendere. Così è facile che tra le parti si crei un muro e, per solito, dove c’è già una realtà consolidata, a soccombere è il nuovo arrivato e non il vecchio sistema. E questo è un peccato perché il Pd ha bisogno di risorse nuove e le perde se continua a chiudere loro la porta in faccia. Oggi c'è troppa chiusura dentro a schemi vecchi. C'è troppa paura di aprirsi. I nuovi non riescono ad esprimere compiutamente un parere diverso perché non vengono accettati, vengono zittiti e tacciati di irrealismo o di inesperienza o, semplicemente perché il ragionamento di cui sono portatori non rientra nello schema mentale della “vecchia guardia”.
La realtà, però, è che non tutti i nuovi che utilizzano i linguaggi coloriti di Matteo Renzi sono come lui, anzi molto spesso sono diversissimi e nemmeno apprezzano troppo il sindaco di Firenze, solo che in un contesto così piatto soffocante non riescono a trovare forme espressive migliori per dar voce al proprio disagio e finiscono per prendere in prestito quelle del furbetto toscano che, in realtà, non pensa affatto al rinnovamento ma a se stesso.
Di questa modalità, le maggiori espressioni si hanno tra i giovani perché il loro mondo è fatto così. La società di oggi non è più la stessa di cinque o dieci anni fa: il mondo cambia velocemente, il tempo trasforma le cose in fretta e anche solo quello che era valido un anno prima può già non esserlo più e allora ecco spiegata la loro impazienza, la loro fretta di arrivare, di non perdere il treno perché quello successivo potrebbe passare troppo tardi o non passare affatto. Le regole del mondo dei giovani sono queste: è cambiato il mondo, cosa devono aspettare? Di finire rottamati prima ancora di aver provato ad esprimersi? È l’impostazione della società che spinge a pensieri di questo tipo, non è solo un problema di regole e di conformazione del Partito Democratico. In una società dove il merito non esiste, dove ad andare avanti sono i più furbi e i più raccomandati (poco importa se sanno far qualcosa o meno), chi si sente di essere almeno un po’ preparato quale aspettativa deve avere?
Quello che sarebbe utile è trovare un punto di equilibrio tra vecchio e nuovo; una mediazione, un reciproco venirsi incontro per cercare una convergenza, anziché evidenziare le differenze e finire a scontrarsi su quelle. Ma per trovare un punto di equilibrio è indispensabile che entrambe le parti facciano dei passi indietro e delle rinunce rispetto all’irrigidimento sulle proprie posizioni.
Tutto questo è necessario che parta dalla base prima ancora che ai vertici. Il vertice riproduce lo stesso identico meccanismo problematico.
Non serve mettere un leader che incarni il nuovo se ha dietro di sé una base vecchia perché finirebbe per essere travolto (è accaduto a Veltroni, mai compreso dall’establishment del vecchio PCI, è accaduto a Franceschini, addirittura mai considerato solo perché ex democristiano e accadrebbe anche ai prossimi). Questo vale per i vertici nazionali ma vale anche per i vertici locali.
Dove ci sono vertici nuovi, troppo spesso, si trovano ad agire arroccati in se stessi, completamente isolati dal resto del partito, da cui sono mal visti e da cui necessitano di difendersi perché, anziché trovare disponibilità di aiuto per i momenti di difficoltà, sostegno e supporto, si trovano attorniati da un branco di squali che non aspetta altro che vederli inciampare per sbranarseli. Il risultato è che l’inesperienza dei nuovi li porta a fare errori piuttosto grossolani e con conseguenze gravi ma che chi si offre di dar loro aiuto, in realtà, il più delle volte, sono persone cercano di sfrattarli dalla poltrona conquistata.
Dove ci sono vertici espressione del vecchio establishment si verifica lo stesso meccanismo, con il perpetrarsi di sistemi consolidati ma non sempre vincenti e intorno un coro di voci nuove insofferenti che reclamano spazi che non vengono concessi.
Anche in questo caso è più che mai necessaria la mediazione: occorre un passaggio, attraverso la formazione politica, ai nuovi arrivati che oggi manca ma che non può nemmeno essere fatta con i metodi vecchi di secoli fa perché il mondo è profondamente cambiato. Occorre che le “vecchie guardie” cerchino di andare incontro ai nuovi arrivati, ascoltandoli, aprendo loro la porta e cercando di fare loro quel lavoro di diplomazia necessaria per trovare una convergenza e ottenere un risultato che sia gradito ad entrambi. I nuovi arrivati, spesso dimostrano poca pazienza, sono poco inclini alle vecchie liturgie e, giusto o sbagliato che sia, dal loro punto di vista hanno ragione e non gli si può chiedere di adeguarsi a qualcosa che non appartiene al loro mondo ed è ormai profondamente disancorato dalla realtà attuale. È impensabile che siano i nuovi a cercare la sintesi: non ne hanno la formazione e l’esperienza necessaria; questi possono solo metterci la pazienza di capire che non tutto si ottiene subito e come lo si vuole, la costanza nell’impegno anche nei momenti non propriamente felici, la capacità di imparare ad esprimersi adeguatamente e nel rispetto di tutti; ma poi occorre che anche i “vecchi” assumano un atteggiamento corretto, smettendo di fingere di voler aiutare i nuovi mentre, in realtà li usano semplicemente come bandiere di facciata dietro alle quali nascondersi per continuare a perpetrare i loro metodi e il loro potere (dove c’è).

Occorre “fare un partito nuovo in un tempo nuovo”, lo ha detto Dario Franceschini più volte nei suoi interventi ma, al di là delle parole, questa operazione non è mai stata messa in pratica e, anche là dove era stata cominciata, si è fermata perché i nuovi da soli non vanno da nessuna parte e i vecchi, in realtà, alla necessità di rinnovamento non sembrano mai averci creduto. Al di là delle frasi di circostanza che si dicono sempre sul caso, la realtà dei fatti è sotto agli occhi di tutti: il partito è ancora fortemente legato alle vecchie logiche di Ds e Margherita e gli scontri attuali, più che sulle idee, continuano ad avvenire per ragioni di poltrone e leadership.

venerdì 4 marzo 2011

Uno scherzo di pochi e un danno a tanti

Uno svarione non da poco quello di Bersani sulle firme raccolte dal Pd per mandare a casa Berlusconi.
È inutile fare finta di niente e nascondere la testa sotto la sabbia: per uno scherzo di pessimo gusto di pochi, si è fatto una figuraccia in tanti.
È su molti giornali di oggi l’ironia dei commentatori che accusano il Partito Democratico di una “patacca” con quelle firme tra cui figurano pure Paperino e Fidel Castro.
Qualcuno ha detto che raccogliere le firme in rete è stato un errore, qualcun altro ha replicato che pure ai gazebo si poteva firmare più volte senza che nessuno se ne accorgesse.
Cose capitano, niente di grave: c’è sempre chi fa il cretino e si diverte a mettere i bastoni tra le ruote alla gente per bene che lavora con impegno e c’è sempre chi invece lo fa sbadatamente, senza accorgersi che sta facendo un danno con una firma in più.
Il fatto abbastanza grave, però, è come il tutto è stato gestito dal segretario del Pd e, soprattutto dal suo staff, perché magari lui nemmeno ha tempo di badare a queste cose.
Lo slogan delle dieci milioni di firme era sembrato a tutti decisamente troppo azzardato: si poteva puntare ad un numero più basso, come hanno suggerito in molti interni al Pd, ma si poteva anche non dare alcun numero. A cifra lanciata, in ogni caso, nessuno si è tirato indietro e tutti i circoli si sono attivati con gazebi, presenze alle manifestazioni e mercati per ottenere il massimo possibile.
E la gente (quella vera, non quella che si firma Paperino) c’era, accorreva, firmava convintamente e non tutti erano elettori Pd, anzi, qualche volta è capitato pure qualcuno di destra che si è presentato a firmare perché diceva di non si sentirsi rappresentato da Berlusconi e non vedeva l’ora di liberarsene.
Ecco perché questa storia delle firme taroccate fa male: chi ha fatto quello scherzo o chi ha firmato più volte, ha tradito quelle persone che hanno firmato davvero, che hanno messo in piedi i gazebi, che si sono date tanto da fare per raccogliere le firme. Uno scherzo di pochi che ha sporcato il lavoro e anche la credibilità di molti.
Sì, la credibilità, perché un cittadino non strettamente legato al Pd che accetta di mettere una firma per un’iniziativa di questo tipo, in qualche modo ti sta aprendo una porta, ti sta dicendo che, anche se non ti vota, in questa battaglia ti sostiene e, se te la giochi bene, non è detto che in futuro non tornerà a guardarti e a sostenerti per altre iniziative.
Il risultato è che adesso, molte di quelle persone probabilmente si sentono prese in giro da un partito che anziché fare le cose serie e per bene, ha fatto una patacca. Involontaria, certamente, ma sempre patacca resta. E se a mettere le firme finte non sono stati simpatici perditempo ma veri e propri sabotatori (com’è accaduto alle ultime discusse primarie napoletane) è anche peggio perché ciò che emerge è che nessuno si è preoccupato di controllare.
Pazienza per le firme ai gazebi: difficile sapere se qualcuno firma più volte, sta al buon senso delle persone non farlo.
Ma sulle firme in rete, possibile che nessuno del Pd abbia visto e controllato?
Possibile che prima di far esporre il segretario, mettendogli in bocca cifre e dati, nessuno del suo staff si sia preoccupato di fare una verifica?
Probabilmente, le firme false sono pochissime e la vicenda non ha un reale peso ma proprio per questo andavano individuate e rimosse per tempo. Perché giocarsi la credibilità di un’iniziativa che - al di là dei numeri - si stava rivelando una bella operazione d’immagine e che stava portando tanta gente ad avvicinarsi al Pd?
Oltretutto, non c’era più bisogno di rimarcare il numero, finché la partita era aperta e alla fine sarebbe bastato consegnare uno scatolone simbolico di firme… Tante volte si finisce a farsi male da soli, scivolando su delle piccolezze.