giovedì 19 maggio 2011

Analisi del voto

I giornali di questi giorni sono pieni di pagine di analisi elettorali, più o meno tutte simili tra loro perché ciò che è accaduto con la tornata di elezioni amministrative appena trascorsa è ben evidente agli occhi di tutti.
Semplificando, come ha detto il segretario Pd Pier Luigi Bersani, il centrosinistra ha vinto e il centrodestra ha perso: il dato è abbastanza omogeneo su tutta l’Italia e ha valenza politica nazionale per come è stata condotta la campagna elettorale ma anche perché a metà legislatura del governo è ovvio che gli italiani abbiamo cominciato a fare un bilancio dell’azione della maggioranza in carica.
Quel che emerge chiarissimamente da tutti i risultati è che il centrodestra ha perso consensi: gli elettori delusi o hanno votato altrove o non hanno votato affatto.
Tutti gli analisti, infatti, si sono affrettati a segnalare che questa volta, a differenza del passato, non c'è stato scambio di voti tra Lega e Pdl. «Ci sono state, invece, perdite nette dell'uno e dell'altro. - scrive Roberto D’Alimonte su Il Sole 24 Ore - Contrariamente alle aspettative i delusi di Berlusconi non hanno votato Bossi. E così tutto il centrodestra arretra. Il problema non si presenta solo a Milano. Se così fosse la spiegazione potrebbe essere cercata in fattori locali. Rispetto alle ultime regionali Pdl e Lega perdono sistematicamente in tutto il Nord sia nei comuni che nelle province».
Milano è, tuttavia, il caso più eclatante di quanto avvenuto oltre che una città simbolo del potere del centrodestra che, questa volta, sembra essere giunto al termine.
Innanzitutto, tutte le nove zone della città sono passate al centrosinistra (prima soltanto la Zona 9 era governata dal centrosinistra, mentre le altre otto erano del centrodestra).
Andando ad analizzare i dati elettorali, inoltre, emerge un fatto importante: le preferenze, di solito abbastanza complicate da raccogliere, sono state utilizzate dagli elettori del centrosinistra molto più che da quelli del centrodestra. I partiti maggiori e i candidati più noti, ovviamente, sono quelli che ne hanno raccolte di più. Per il centrosinistra, 49.153 preferenze sono state espresse per i candidati del Partito Democratico (con un trionfo di Stefano Boeri) e 10.956 da Sinistra Ecologia e Libertà, poche quelle per gli altri partiti (per lo più attribuite al candidato di punta della lista). Spicca la scarsità di preferenze raccolte dall’Italia dei Valori: nessun numero eclatante sulla lista e questo è un dato curioso perché notoriamente gli elettori di quel partito sono persone molto attente e tendono ad informarsi bene sui candidati.
Complessivamente, l’Italia dei Valori ha perso molto in queste elezioni in tutta Italia a vantaggio delle liste del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo (ad eccezione di Napoli, dove la popolarità di Luigi De Magistris hanno concesso al partito di Di Pietro di arrivare al ballottaggio) e viene da pensare che il tutto sia ricollocabile in chiave di politica nazionale: la compravendita dei deputati da parte di Berlusconi che ha visto come protagonisti principali proprio tre dipietristi deve aver lasciato il segno.
Le liste del centrodestra a Milano hanno raccolto ben poche preferenze: il partito che ne ha ottenute di più è il Pdl (grazie a nomi noti messi in lista), scarsissime quelle della Lega con l’eccezione di Matteo Salvini e questo è un dato che dovrebbe far riflettere sul presunto radicamento nel territorio dei candidati leghisti, perché la preferenza è un segno chiaro che gli elettori hanno scelto consapevolmente quel candidato.
Perplessità emergono poi sul cosiddetto Terzo Polo: su scala nazionale si è mostrato irrilevante, segno che la politica dei “mille forni” di Casini non paga. Del resto è un po’ difficile sparare contro Berlusconi in una città e presentarsi suo alleato in un'altra...
Inoltre, a questo si aggiunge l’idea del voto utile, ben spiegata da Massimo D’Alema, in un’intervista a La Stampa: «Queste elezioni dimostrano che se la richiesta di cambiamento è così diffusa, allora i cittadini utilizzano il voto che ritengono utile per ottenere il cambiamento. Voglio dire che se a Milano si pensa che occorra chiudere con la Moratti, allora i cittadini - con tutto il rispetto per il Terzo polo - votano per Pisapia, che è il candidato che può batterla. L’idea bipolare è ormai radicata nella testa degli elettori, e a volte la “terzietà”, se è fine a se stessa, si paga. Ripeto: ho grande rispetto per la discussione in corso nel Terzo polo, ma chiedo loro in che prospettiva strategica si pongono. Se si vuole superare il berlusconismo, bisogna assumersi delle responsabilità. E non mi riferisco certo a questi ballottaggi».
Le cose, infatti, cambiano notevolmente adesso con i ballottaggi perché il Terzo Polo potrebbe diventare un pericoloso ago della bilancia.
Nel caso specifico di Milano, è stato anche merito di Casini (oltre che delle intemperanze di Berlusconi, Lassini e Santanché) se la Moratti ha perso 80.000 voti: il venerdì di chiusura della campagna elettorale è stato lui ad andare su tutte le televisioni a dichiarare che gli estremisti stavano nel centrodestra. Monito importante per quello che potrebbe essere il suo bacino elettorale che, indipendentemente dal fatto che possa aver votato per Manfredi Palmeri o no, sicuramente, dopo quelle affermazioni, non ha votato per il sindaco uscente.
Anche questo dei toni utilizzati nella campagna elettorale è stato un tratto che – come tutti hanno rilevato – ha inciso enormemente nella scelta da fare alle urne.
La comparsata televisiva ad Anno Zero di Daniela Santanché ha regalato una marea di voti di indecisi a Pisapia: non ci voleva molto a capirlo, bastava andare per strada il giorno dopo per sentire cosa dicevano le persone.
Michele Brambilla, su La Stampa, commenta: «Milano è troppo sobria per quella gente là, abbiamo sentito dire da una signora, che per “quella gente là” intendeva i pasdaran della politica urlata, i titolisti dal pugno nello stomaco, i professionisti del dossieraggio: gente che non è neanche di Milano e non sa che quello stile lì a Milano può funzionare sul breve ma non alla distanza. Perché “il troppo stroppia” è un altro proverbio che fa parte del patrimonio di saggezza di questa città. Perché che Pisapia sia un estremista, o il capo di un’eventuale giunta di estremisti, a Milano non la beve nessuno».
E ancora «Occupata com’era a dimostrare (o a far dimostrare) con ogni argomento – tutti sistematicamente sbugiardati – che Giuliano Pisapia non è una “forza gentile” espressione della buona borghesia milanese ancorché di sinistra, ma più o meno un mascherato fiancheggiatore di terroristi di varia natura, non si è accorta che i milanesi in effetti si sono presi paura. Non già di Pisapia, ma dell’estremismo che lei, eccessiva nel Dna, incarna», scrive di Daniela Santanché, Fabrizia Bagozzi su Europa.
Ed è tutto vero perché Giuliano Pisapia non è quello che la destra ha cercato di far credere e le persone, che in questi mesi lo hanno cercato, incontrato, ascoltato, lo sanno benissimo.

Lo stupore per il risultato elettorale (tanto per l’arrivo al ballottaggio, quanto per le percentuali con cui si è arrivati) che ha colto tanti commentatori e anche tanti dirigenti di partito, in realtà lascia intendere come questi siano stati molto distratti nei mesi di campagna elettorale perché bastava girare un po’ per le iniziative a cui era prevista la partecipazione di Giuliano Pisapia per accorgersi che qualcosa si stava muovendo, che c’era tanta attenzione attorno a lui (anche da parte di persone che normalmente non si vedono alle iniziative politiche) e tanta voglia di conoscerlo, di sentire cosa aveva da raccontare e, al di là del commento sulle doti comunicative del candidato sindaco del centrosinistra, quello che colpiva di lui era proprio la sua naturalezza, il suo essere in mezzo agli altri, il suo parlare di cose normali (che interessano a tutti i cittadini, come l’abitare, le case, il verde, il traffico, l’inquinamento, l’acqua pubblica, l’occupazione, la trasparenza nella politica) come una persona normale. Qualità rare queste in un tempo di politici urlanti e venditori di sogni impossibili.
Lasciando Milano per guardare alle tendenze nazionali, emergono complessivamente due dati:
1) Il centrosinistra ovunque vince se è unito. In questa tornata elettorale, a parte Napoli, fondamentalmente la coalizione di centrosinistra si è mostrata unita, mentre il centrodestra ha perso pezzi da tutte le parti (il Terzo Polo è andato da solo, la Lega in alcuni comuni ha scelto di andare da sola e anche dove era insieme al Pdl ha mostrato forti segni di insofferenza). E qui, inevitabilmente, si apre la questione delle alleanze e tutte le problematiche che queste comportano. Alla luce dei risultati elettorali, da una parte Romano Prodi è intervenuto gioioso per dire che l’Ulivo era rinato, e dall’altra parte Dario Franceschini ha riproposto la teoria dell’alleanza larga comprendente il Terzo Polo. Tutte ipotesi percorribili e tutte corrette perché, se la matematica non è un’opinione, i numeri usciti da questa tornata elettorale parlano chiaro: divisi non si va da nessuna parte. Ma allora, assoldato il fatto che le alleanze sono indispensabili, occorre necessariamente valutare con attenzione con chi allearsi e quale ruolo ritagliarsi all’interno dell’alleanza e questo è il punto che il Partito Democratico deve chiarire (soprattutto con se stesso perché, anche in questo caso i numeri parlano chiaro, molti problemi sono di natura interna e non si ripercuotono sulle scelte degli elettori).
Franceschini, in una recente intervista a Repubblica Tv, ha affermato che il ruolo del Pd – in quanto partito più grande – deve essere quello che tiene insieme la coalizione e che, quindi, sta in mezzo tra la sinistra (rappresentata da Vendola in prevalenza) e il Terzo Polo. Posizione questa che, per quanto abbastanza naturale, è un po’ riduttiva dal punto di vista politico: forse Franceschini si è espresso male ma, al maggior partito della coalizione dovrebbero spettare proposte (che per altro ci sono) e, con queste, la guida nella linea politica. Se il Pd deve essere solo un collante tra due forze (una di sinistra e una di centro), serve a poco.
2) Al di là della tendenza complessiva, secondo cui gli italiani con il voto volevano esprimere la loro sfiducia al governo in carica, vincono meglio i candidati noti, forti e dal profilo politico riconoscibile, gli altri fanno più fatica. Lo dimostrano l’enorme successo avuto da Piero Fassino (il sindaco più votato) nonostante le candidature fossero 37, lo dimostra De Megistris (a scapito di Morcone, il quale oltre a non essere conosciuto si trovava a dover scontare i pasticci del Partito Democratico di Napoli sulle primarie e la propaganda pressante sul dramma dei rifiuti che continua ad attanagliare la città), lo dimostra anche Giuliano Pisapia (persona molto conosciuta e dal profilo politico chiarissimo e netto) e lo dimostra anche la difficoltà di Virginio Merola a Bologna, in bilico fino all'ultimo (pagava l’affaire Del Bono che ha portato all'exploit i grillini, alcuni svarioni che ha preso durante la campagna elettorale ma anche il fatto di essere sostanzialmente un personaggio non noto).
Un dato che tutti i giornali hanno voluto mettere in risalto (erroneamente) il giorno successivo alle elezioni è stato quello del cosiddetto trionfo della «sinistra estrema» (scritto proprio così), in quanto Pisapia (Milano), Zedda (Cagliari) e De Magristris (Napoli) sarebbero esponenti di quelle tendenze.
A parte il fatto che, caso mai si tratta di “sinistra più radicale” o semplicemente “sinistra”, questo dato però è vero solo parzialmente: è vero che la candidatura di Pisapia è nata nell’ambito di Rifondazione/Sinistra Ecologia e Libertà, così come a Sel appartiene Zedda e De Magistris sicuramente non è annoverabile tra i soggetti moderati, ma questi partiti, in realtà, alle elezioni hanno preso pochi voti. A Milano è stato un trionfo del Pd che, arrivando al 28%, ha raggiunto il Pdl e nelle altre città la tendenza è la stessa.
Gli elettori, pur scegliendo persone di partiti piccoli per la guida del loro comune o della loro provincia, non hanno poi dato il voto di lista a quei partiti ma si sono concentrati sui partiti maggiori, forse in quanto più conosciuti i loro esponenti e forse anche perché ritenuti una miglior garanzia di governabilità in caso di vittoria elettorale.
Il Partito Democratico, dunque, per quanto perennemente impelagato nelle discussioni interne di alcuni suoi esponenti a livello nazionale e per quanto presentasse situazioni politicamente problematiche a livello locale, da questa tornata elettorale ne è uscito benissimo. Segno, questo, che ai cittadini-elettori non interessa minimamente tutta la discussione interna sugli equilibri delle componenti e la problematica sulla consistenza o meno dei dirigenti locali: questi sono tutti fattori che all’esterno non si guardano, non interessano e anche quando si vedono si comprendono poco. Ecco allora che l’unità e la compattezza del partito diventano importanti agli occhi dell’esterno e quando si va a parlare fuori occorre che i dirigenti si assumano completamente questa responsabilità. Ciò non significa negare i problemi o non discutere, ma vuol dire farlo all’interno, negli organismi, per poi uscire uniti e più forti insieme, perché ciò che è un problema per gli equilibri interni al partito non necessariamente lo è per i comuni cittadini, anzi, il più delle volte non lo è affatto e quindi è meglio se questi fattori non vengono accentuati quando si parla fuori.
Venendo agli equilibri interni, tuttavia, guardando ai dati elettorali milanesi, qualche riflessione va fatta. Affari Italiani, per quanto riguarda il Pd, segnala che «Dalle urne è uscita una leadership riconosciuta: quella di Stefano Boeri. Nessuno a sinistra ha ottenuto mai tanti voti quanto lui. Altro "vincitore" è stato Pierfrancesco Maran, che è riuscito a costruire una rete di apparentamenti molto efficaci con i consigli di zona e che si propone come uomo di innovazione nell'ambito della politica democratica. Risultato da rimarcare anche per Carmela Rozza, che è stata non solo la donna del Pd più votata, ma la più votata in generale tra tutte le candidature femminili. Tra quelli che possono gioire ci sono anche i cattolici, che hanno fatto lavoro di squadra e che conquistano il sesto, il settimo e l'ottavo posto in consiglio con Granelli, Pantaleo e Fanzago».
Nomi e reti queste che agli elettori possono non voler dire niente ma che all’interno del partito dicono moltissimo. Anche in piccolo, come per le tendenze nazionali, chi ottiene di più è chi è più conosciuto ma anche chi ha una buona rete di sostegno perché, pure in questo caso, da soli si va poco lontano mentre con buone reti si vince. E, allora, per il futuro, è bene che le componenti riflettano sui successi o meno dei loro candidati e, soprattutto, sul funzionamento della rete che doveva servire a portare loro voti, per consolidare o rinnovare dove serve.