domenica 20 marzo 2011

Il partito nuovo non c'è

Rinnovamento è una parola che ogni tanto torna fuori nel dibattito interno al Partito Democratico. Prende forme diverse a seconda del personaggio che, di volta in volta, sembra ergersi ad incarnazione di quel concetto. Un’espressione del rinnovamento è stata la “giovane” Debora Serracchiani, diventata famosa per le sue sparate contro l’apparato ma che poi ha cambiato metodo perché deve aver capito che, al di là della simpatia della gente e di qualche buon titolo sui giornali, non le avrebbero reso vita facile dentro al Pd. Espressione del rinnovamento o della “rottamazione” è stato di recente anche Matteo Renzi, il quale se ad un certo punto sembrava aver ammorbidito i toni, poi ha scelto di rialzarli perché ha capito che tutto sommato gli fa ancora comodo così. In entrambi i casi si tratta di persone mediamente giovani di età, almeno rispetto al resto dei rappresentanti del Pd.
È curioso, invece, che in questi ultimi giorni, si voglia far portavoce del rinnovamento anche un soggetto che giovane non è (né per politica né per età) quale Giuseppe Fioroni.
Fioroni, nella rivista Il Domani d’Italia, appena lanciata in rete, scrive un articolo intero dedicato al rinnovamento, ponendo una domanda di fondo: “E la prima domanda che onestamente dobbiamo farci è: possiamo pensare che il domani, dopo Berlusconi, sia rappresentato da un centrosinistra che invece ha le stesse facce di ieri? O non è forse arrivata l'ora anche per noi di avere coraggio? Sappiamo che entro un congruo numero di mesi avremo davanti a noi la sfida più importante: archiviare Berlusconi senza esserne archiviati anche noi”.
La domanda non è sbagliata, ma lascia emergere due elementi di fondo: 1) Berlusconi, 2) la classe dirigente del Pd.
Fioroni cita Berlusconi in ogni passaggio del suo articolo, quasi come se vero il tema di fondo non fosse il rinnovamento del Pd, ma la scelta di una linea politica improntata sul cosiddetto antiberlusconismo. Opinione legittima, che oltretutto Fioroni non ha mai nascosto, ma che poco ha a che vedere con il rinnovamento del partito (come fa notare anche Debora Serracchiani, in un altro articolo), dove in realtà, i giovani sono molto più antiberlusconiani dei non giovani (Renzi a parte, guarda caso ben visto da Fioroni, vista la sua visita ad Arcore).
La classe dirigente del Pd (di cui oltretutto Fioroni fa parte e non da oggi), invece, rappresenta solo una parte del problema del rinnovamento.
Il problema del rinnovamento, infatti, non riguarda solo i vertici, anzi molto più spesso riguarda la base, intendendo per tale sia i militanti, gli iscritti, coloro che si occupano di veicolare le idee del partito sul territorio o che lo rappresentano nelle istituzioni locali (anche di basso livello), sia il bacino elettorale del Pd (la cui composizione emerge in modo piuttosto netto al momento delle primarie ma anche alle iniziative locali del partito).
Tuttavia, questo problema sembra che il Pd faccia fatica ad affrontarlo: ogni volta c’è qualcosa di più urgente, sia l’emergenza democratica in cui ci fa precipitare Berlusconi, sia la crisi economica, sia la possibilità di far cedere il governo e quindi la necessità di mostrarsi uniti di fronte agli elettori… Senza contare che il segretario Bersani è abilissimo nello svicolare i problemi, preferendo non dare risposte e lasciare passare il tempo, in modo che prima o poi svaniscano da soli e vengano messi da parte da questioni più importanti (che certamente ci sono e sono tutte più che legittime, ma non risolvono i disagi di tutt’altra natura). “Dovremmo saperlo che, quando non ci si occupa di un problema, di solito, prima o poi è il problema che si occupa di te. E occuparsene non significa soltanto mettere in segreteria un certo numero di quarantenni, o assicurare che i “giovani” saranno mandati in tv”, scrive infatti Debora Serracchiani.
Il problema è che non basta correggere la rotta e aggiustare un po’ le cose ma bisogna cambiare il sistema.
La si vede in continuazione la riproposizione del vecchio sistema, soprattutto nei momenti vicini alle elezioni, in cui c’è la necessità di formare liste elettorali. Non è colpa di nessuno, la “vecchia guardia” che porta avanti il partito è abituata a fare politica così e cerca di farlo bene, ma mantenendo la vecchia impostazione.
Debora Serracchiani, giustamente, segnala che “Innanzitutto, l’interrogativo sul rinnovamento del Pd è di fondo e di merito, e riguarda la transizione talvolta incompiuta dai partiti d’origine a quello democratico, la riproposizione all’interno del Pd di logiche proprie dei vecchi partiti, fino all’affiorare degli aspetti più preoccupanti dell’elettoralismo o del raggrumarsi di bozzoli di partito nel partito”.
Non è un problema di persone, è un problema di metodo. Le persone che ci sono cercano di agire per il meglio, secondo le loro idee e le loro abitudini. Non possono cambiare loro e non possono cambiare da soli: c'è bisogno di gente nuova che, evidentemente, non c'è e quando c’è si trova a disagio e o tace o se ne va.
Quello che manca, oggi, è la mediazione tra il vecchio e il nuovo. Troppo spesso le persone nuove (giovani o meno che siano) si trovano davanti ad una serie di imposizioni di metodo già consolidate e che nessuno intende mettere in discussione, contro le quali sembra impossibile tentare anche la più piccola modifica. Di fronte a ciò, spesso accade che o i nuovi si arrabbiano e cercano di imporre la loro voce (spesso con i toni sgraziati alla Renzi, soprattutto se sono giovani perché abituati a questo tipo di linguaggio tipico della società moderna, sempre molto urlata e poco incline alla vecchia maniera della diplomazia) oppure desistono e se ne vanno perché non si sentono più a casa (cosa che capita di frequente sia tra i giovani che i meno giovani). Dall’altra parte, sul versante della “vecchia guardia”, c’è una difficoltà enorme nel comprendere le ragioni di questo disagio e anche dei linguaggi con cui viene mostrato, classificando spesso le persone che ne sono portatori come irrispettosi, ambiziosi, indisponenti, arroganti, e finendo così per arroccarsi in una difesa a spada tratta dell’esistente, giustificata dal sentirsi minacciati e aggrediti dal nuovo che non riescono a comprendere. Così è facile che tra le parti si crei un muro e, per solito, dove c’è già una realtà consolidata, a soccombere è il nuovo arrivato e non il vecchio sistema. E questo è un peccato perché il Pd ha bisogno di risorse nuove e le perde se continua a chiudere loro la porta in faccia. Oggi c'è troppa chiusura dentro a schemi vecchi. C'è troppa paura di aprirsi. I nuovi non riescono ad esprimere compiutamente un parere diverso perché non vengono accettati, vengono zittiti e tacciati di irrealismo o di inesperienza o, semplicemente perché il ragionamento di cui sono portatori non rientra nello schema mentale della “vecchia guardia”.
La realtà, però, è che non tutti i nuovi che utilizzano i linguaggi coloriti di Matteo Renzi sono come lui, anzi molto spesso sono diversissimi e nemmeno apprezzano troppo il sindaco di Firenze, solo che in un contesto così piatto soffocante non riescono a trovare forme espressive migliori per dar voce al proprio disagio e finiscono per prendere in prestito quelle del furbetto toscano che, in realtà, non pensa affatto al rinnovamento ma a se stesso.
Di questa modalità, le maggiori espressioni si hanno tra i giovani perché il loro mondo è fatto così. La società di oggi non è più la stessa di cinque o dieci anni fa: il mondo cambia velocemente, il tempo trasforma le cose in fretta e anche solo quello che era valido un anno prima può già non esserlo più e allora ecco spiegata la loro impazienza, la loro fretta di arrivare, di non perdere il treno perché quello successivo potrebbe passare troppo tardi o non passare affatto. Le regole del mondo dei giovani sono queste: è cambiato il mondo, cosa devono aspettare? Di finire rottamati prima ancora di aver provato ad esprimersi? È l’impostazione della società che spinge a pensieri di questo tipo, non è solo un problema di regole e di conformazione del Partito Democratico. In una società dove il merito non esiste, dove ad andare avanti sono i più furbi e i più raccomandati (poco importa se sanno far qualcosa o meno), chi si sente di essere almeno un po’ preparato quale aspettativa deve avere?
Quello che sarebbe utile è trovare un punto di equilibrio tra vecchio e nuovo; una mediazione, un reciproco venirsi incontro per cercare una convergenza, anziché evidenziare le differenze e finire a scontrarsi su quelle. Ma per trovare un punto di equilibrio è indispensabile che entrambe le parti facciano dei passi indietro e delle rinunce rispetto all’irrigidimento sulle proprie posizioni.
Tutto questo è necessario che parta dalla base prima ancora che ai vertici. Il vertice riproduce lo stesso identico meccanismo problematico.
Non serve mettere un leader che incarni il nuovo se ha dietro di sé una base vecchia perché finirebbe per essere travolto (è accaduto a Veltroni, mai compreso dall’establishment del vecchio PCI, è accaduto a Franceschini, addirittura mai considerato solo perché ex democristiano e accadrebbe anche ai prossimi). Questo vale per i vertici nazionali ma vale anche per i vertici locali.
Dove ci sono vertici nuovi, troppo spesso, si trovano ad agire arroccati in se stessi, completamente isolati dal resto del partito, da cui sono mal visti e da cui necessitano di difendersi perché, anziché trovare disponibilità di aiuto per i momenti di difficoltà, sostegno e supporto, si trovano attorniati da un branco di squali che non aspetta altro che vederli inciampare per sbranarseli. Il risultato è che l’inesperienza dei nuovi li porta a fare errori piuttosto grossolani e con conseguenze gravi ma che chi si offre di dar loro aiuto, in realtà, il più delle volte, sono persone cercano di sfrattarli dalla poltrona conquistata.
Dove ci sono vertici espressione del vecchio establishment si verifica lo stesso meccanismo, con il perpetrarsi di sistemi consolidati ma non sempre vincenti e intorno un coro di voci nuove insofferenti che reclamano spazi che non vengono concessi.
Anche in questo caso è più che mai necessaria la mediazione: occorre un passaggio, attraverso la formazione politica, ai nuovi arrivati che oggi manca ma che non può nemmeno essere fatta con i metodi vecchi di secoli fa perché il mondo è profondamente cambiato. Occorre che le “vecchie guardie” cerchino di andare incontro ai nuovi arrivati, ascoltandoli, aprendo loro la porta e cercando di fare loro quel lavoro di diplomazia necessaria per trovare una convergenza e ottenere un risultato che sia gradito ad entrambi. I nuovi arrivati, spesso dimostrano poca pazienza, sono poco inclini alle vecchie liturgie e, giusto o sbagliato che sia, dal loro punto di vista hanno ragione e non gli si può chiedere di adeguarsi a qualcosa che non appartiene al loro mondo ed è ormai profondamente disancorato dalla realtà attuale. È impensabile che siano i nuovi a cercare la sintesi: non ne hanno la formazione e l’esperienza necessaria; questi possono solo metterci la pazienza di capire che non tutto si ottiene subito e come lo si vuole, la costanza nell’impegno anche nei momenti non propriamente felici, la capacità di imparare ad esprimersi adeguatamente e nel rispetto di tutti; ma poi occorre che anche i “vecchi” assumano un atteggiamento corretto, smettendo di fingere di voler aiutare i nuovi mentre, in realtà li usano semplicemente come bandiere di facciata dietro alle quali nascondersi per continuare a perpetrare i loro metodi e il loro potere (dove c’è).

Occorre “fare un partito nuovo in un tempo nuovo”, lo ha detto Dario Franceschini più volte nei suoi interventi ma, al di là delle parole, questa operazione non è mai stata messa in pratica e, anche là dove era stata cominciata, si è fermata perché i nuovi da soli non vanno da nessuna parte e i vecchi, in realtà, alla necessità di rinnovamento non sembrano mai averci creduto. Al di là delle frasi di circostanza che si dicono sempre sul caso, la realtà dei fatti è sotto agli occhi di tutti: il partito è ancora fortemente legato alle vecchie logiche di Ds e Margherita e gli scontri attuali, più che sulle idee, continuano ad avvenire per ragioni di poltrone e leadership.